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BATTITO REGOLARE: un innovativo studio internazionale, codiretto dal Prof. Alessandro Bertero, aggira il rischio di aritmie legate ai trapianti di cellule staminali grazie a metodiche di editing genetico.

Alessandro Bertero aritmie cellule staminali editing
Alessandro Bertero. Foto di Maurizio Marino

Ritmo cardiaco finalmente regolare, addio aritmie ed arresti cardiaci. Per la prima volta una nuova metodica per riparare il cuore infartuato evidenzia gli effetti positivi delle cellule staminali ingegnerizzate.

Negli ultimi anni è emerso che trapiantare cellule di cuore differenziate da cellule staminali ha un grande potenziale terapeutico, ma espone il paziente ad un periodo transitorio molto pericoloso, caratterizzato di severi disturbi del ritmo cardiaco, come le aritmie.

In questo studio innovativo è stato scoperto il meccanismo molecolare che porta ad un’incompatibilità tra le cellule trapiantate ancora “immature” e quelle del cuore adulto. E ciò influenza la capacità delle cellule immature di battere ritmicamente in modo analogo alle cellule del pacemaker adulto ma diversamente dal resto del cuore.

I risultati della ricerca mostrano, invece, l’assenza di aritmie legate al trapianto quando si applicano metodiche di editing genetico (CRISPR/Cas9) per ingegnerizzare delle cellule staminali. Esse, una volta differenziate nel muscolo cardiaco, non si contraggono più spontaneamente, ma solo in risposta ad uno stimolo elettrico come quello inviato dal pacemaker.

“Siamo stati sorpresi da quanti meccanismi inducano un battito spontaneo rapido nelle cellule immature: per ottenere delle cellule che seguano il ritmo del cuore adulto ci sono voluti ben quattro modifiche geniche, ed altrettanti anni di lavoro” – chiarisce la Dr.ssa Silvia Marchianò, prima firmataria dello studio.

I risultati dello studio, intitolato “Gene editing to prevent ventricular arrhythmias associated with cardiomyocyte cell therapy”, sono stati pubblicati il 6 aprile su Cell Stem Cell, la più prestigiosa rivista nel campo delle cellule staminali. Uno studio co-coordinato da Alessandro Bertero, responsabile del laboratorio Armenise-Harvard di genomica dello sviluppo e ingegneria cardiaca presso il Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute dell’Università di Torino, e dal Prof. Chuck Murry, Direttore dell’ “Institute for Stem Cell and Regenerative Medicine” dell’Università di Washington.

“In studi tuttora in corso si sta valutando l’efficacia di questo trattamento in coorti precliniche più ampie. In base ai dati ottenuti finora siamo ottimisti che le cellule ingegnerizzate mantengano la loro capacità di ripristinare la funzione contrattile del cuore danneggiato da infarto o altre patologie genetiche che portano all’indebolimento della muscolatura cardiaca” – ha dichiarato il Prof. Alessandro Bertero, giunto in Italia grazie al finanziamento della Fondazione Armenise-Harvard.

La pubblicazione dello studio arriva subito dopo la notizia del finanziamento di oltre 7 milioni di euro, conferito dal Ministero dell’Università e della Ricerca al Dipartimento di Biotecnologie e Scienze per la Salute UniTo nell’ambito del bando Dipartimenti di Eccellenza, ottenuto grazie al progetto EXPECT (EXcellence Platform for Engineered Cell Therapies). Il progetto quinquennale (2023 – 2027) si focalizza su cellule immunitarie antitumorali già validate nella pratica clinica. A fianco di ciò, costruendo sulle basi poste in questo lavoro, il gruppo di ricerca recentemente stabilito dal Prof. Bertero ambisce a portare in Italia terapie sperimentali a base di cellule ingegnerizzate anche per il cuore.

“Nel Dipartimento di Biotecnologie e Scienze per la Salute UniTo, oltre al Professor Bertero lavora anche la Professoressa Chiara Ambrogio, a sua volta vincitrice del Career Development Award della Fondazione Armenise-Harvard.” – dichiara Elisabetta Vitali, direttrice dei programmi italiani della Fondazione – “Sono 2 dei 30 eccellenti scienziati che abbiamo portato in Italia in oltre 25 anni di attività. Tutti sono accomunati da risultati straordinari, per numero e qualità delle pubblicazioni e per la capacità di attrarre finanziamenti: ciò significa che investire nella ricerca e negli scienziati più promettenti, non per forza italiani, significa investire nel futuro dell’Italia.”

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

Le patologie della cornea

Secondo una stima dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2018 253 milioni di persone soffrivano di patologie oftalmiche e di questi 36 milioni erano ciechi: le patologie della cornea (superficie oculare davanti all’iride) rappresentano la quarta causa di cecità a livello globale (5,1%) dopo cataratta, glaucoma e degenerazione maculare legata all’età. Il recente studio pubblicato sulla rivista scientifica JAMA Ophthalmology evidenzia la drammatica proporzione tra cornee disponibili al trapianto e la richiesta: 1 a 70.

Nell’ultimo decennio sono stati fatti sforzi importanti per incoraggiare la donazione di organi e tessuti, tra i quali le cornee. Tuttavia, circa il 53% della popolazione mondiale non ha accesso ad un trapianto corneale. È comprensibile, quindi, che il mondo della ricerca biomedica dedichi notevoli sforzi nello sviluppo di soluzioni alternative o complementari, come lo sviluppo della cornea artificiale.

cornea

Immagine di InovakArt

Soluzioni per la cecità corneale

Per riparare i danni corneali vi sono diverse strade percorribili a seconda dei casi. I trapianti parzialmente artificiali prevedono la sostituzione della cornea del paziente con un complesso costituito da tessuto umano, una protesi di materiale plastico (polimetilmetaacrilato) e un anello di titanio.

In alternativa, il trattamento con cellule staminali: quando l’epitelio di rivestimento corneale viene seriamente danneggiato vengono distrutte anche le cellule limbari, cioè le cellule progenitrici che consentono all’epitelio corneale di rinnovarsi. In questi casi il trapianto di cornea da donatore non è eseguibile.

Molto più raramente è stata utilizzata la membrana amniotica, ossia lo strato più interno del sacco amniotico, per ricostituire l’epitelio corneale, ridurre l’infiammazione e controllare la crescita incontrollata di vasi e tessuto fibroso.

 

Immagine di Paul Diaconu

Una nuova cornea artificiale

È di all’incirca un mese fa la notizia dell’impianto di una cornea artificiale, in collagene ricavato da pelle di maiale, su 20 pazienti affetti da cheratocono (malattia cronica degenerativa della cornea) in Iran e India (clinicaltrials.gov no. NCT04653922).

La ricerca e i primi test, realizzati dai ricercatori della Linköping University e dell’azienda LinkoCare Life Sciences, sono stati pubblicati sulla rivista Nature Biotechnology. I ricercatori hanno utilizzato la proteina suina purificata (il materiale di partenza è un prodotto di scarto dell’industria alimentare, già utilizzato per dispositivi medici approvati dall’FDA) per costruire materiale robusto e trasparente da impiantare in un occhio umano. Le cornee bioingegnerizzate possono essere conservate anche per due anni prima di essere utilizzate, a differenza di quelle da donatore che devono essere trapiantate entro due settimane.

I pazienti che hanno partecipato al clinical trial sono stati seguiti per due anni e nessun evento avverso è stato osservato. 14 pazienti, inizialmente ciechi, hanno recuperato le capacità visive.

 

Immagine di Rafael Juárez

Cornea sintetica: la storia di Jamal

Jamal Furani, 78 anni, da Haifa non era capace di distinguere un amico o il suo vicino di casa se gli fossero stati accanto. L’uomo, infatti, era affetto da cecità corneale bilaterale, una condizione limite causata da patologie gravi della cornea. Le gravi alterazioni della trasparenza corneale lo hanno incatenato nell’ombra per un decennio. L’unico tentativo possibile, dopo 4 precedenti interventi chirurgici falliti, di donargli nuovamente la vista, era provare qualcosa di completamente nuovo. Jamal non era idoneo al trapianto da donatore, ma si presentò un’ultima opportunità: l’impianto di cornea sintetica artificiale. CorNeat KPro, progettata dall’azienda CorNeat Vision, è una cornea artificiale completamente sintetica che si integra tra le componenti dell’occhio, sfruttando cellule esistenti del bulbo oculare. L’intervento è stato condotto al Rabin Medical Center di Petah Tikva, dalla Professoressa Irit Bahar, Direttrice del dipartimento di oftalmologia. Dopo ventiquattro ore dall’intervento sono state rimosse le bende: l’uomo è riuscito a identificare immediatamente le singole dita della mano, i numeri in una tabella, a leggere qualche riga e a vedere sua figlia.

Il successo di questi interventi lasciano concrete speranze per un loro più ampio impiego nell’immediato futuro. Intanto, in India, è stata stampata la prima cornea 3D.

 

Immagine di Mohamed Hassan

 

Per approfondimenti:

cornea
Foto di Rudy and Peter Skitterians

ALLA BASE DEL COVID-19 GRAVE UN DIFETTO DELLE CELLULE STAMINALI 

Pubblicato su «Diabetes» lo studio effettuato dal Dipartimento di Medicina dell’Università di Padova e coordinato dal prof. Gian Paolo Fadini che dimostra un difetto di cellule staminali circolanti nei pazienti ricoverati per COVID-19 che hanno sviluppato un decorso sfavorevole della malattia. L’iperglicemia durante COVID-19 rappresenta una delle cause di riduzione delle cellule staminali circolanti. 

Gian Paolo Fadini COVID-19 grave cellule staminali
Gian Paolo Fadini, coordinatore dello studio pubblicato su Diabetes, che indaga la relazione tra cellule staminali e COVID-19 grave

Fin dall’inizio della pandemia, è emersa una stretta relazione tra diabete mellito e forme severe di COVID-19. Nel 2020 uno studio coordinato dal prof. Gian Paolo Fadini del Dipartimento di Medicina dell’Università di Padova aveva dimostrato che i pazienti affetti da diabete presentavano una probabilità raddoppiata di trasferimento in terapia intensiva o decesso. Come in altre ricerche simili in tutto il mondo, era stato osservato un rischio elevato di andamento sfavorevole anche per i pazienti ricoverati per COVID-19 con elevati valori di glicemia in assenza di diabete.

A far luce su questo tema, un nuovo studio, pubblicato su «Diabetes», la prestigiosa rivista ufficiale della Società Americana di Diabetologia e condotto dai docenti del Dipartimento di Medicina dell’Università, coordinati da Gian Paolo Fadini, Professore Associato di Endocrinologia e Principal Investigator dell’Istituto Veneto di Medicina Molecolare.

Lo studio dimostra che i pazienti ricoverati per COVID-19 presentano un livello molto basso di cellule staminali nel sangue rispetto a soggetti senza infezione da SARS-CoV-2. Inoltre, tra i pazienti con COVID-19 coloro che presentavano livelli più bassi di cellule staminali avevano una probabilità aumentata più di 3 volte di ricovero in terapia intensiva o morte.

Un’altra novità principale dello studio consiste nel dimostrare una strettissima associazione tra iperglicemia al momento del ricovero, difetto di cellule staminali, ed andamento sfavorevole di COVID-19.

«I nostri precedenti studi sui pazienti diabetici – spiega il prof. Gian Paolo Fadini – ci hanno insegnato che le alte concentrazioni di glucosio riducono il livello di cellule staminali ematopoietiche circolanti. Il rilascio di queste cellule nel sangue – continua il professore – è necessario all’organismo per mantenere un’adeguata capacità dei tessuti di ripararsi e di rispondere agli insulti».

«Ora abbiamo osservato che anche nei pazienti senza una storia di diabete, lo stato iper-infiammatorio durante COVID-19 può causare iperglicemia e che questo rialzo glicemico riduce le cellule staminali – sottolinea Benedetta Bonora, ricercatrice del Dipartimento di Medicina dell’Università e prima autrice dello studio –. A sua volta, il difetto di cellule staminali conduce ad un peggioramento del decorso clinico della malattia e spiega perché i pazienti con iperglicemia al momento dell’ingresso in ospedale rischiano di soccombere al COVID-19».

Il lavoro emerge da una collaborazione congiunta con l’Unità di Malattie Infettive, diretta dalla dottoressa Annamaria Cattelan, dove i pazienti sono stati ricoverati, e della Medicina di Laboratorio, diretta dalla prof.ssa Daniela Basso. Come spiega proprio la prof.ssa Basso:

«Raramente osserviamo livelli così bassi di cellule staminali circolanti in individui senza malattie del sangue – conferma Daniela Basso –. Si tratta molto probabilmente di una delle conseguenze dell’abnorme immuno-attivazione indotta dal virus, ma non possiamo escludere che il virus infetti le cellule staminali e le uccida».

«Nelle nostre precedenti ricerche – puntualizza Gian Paolo Fadini – abbiamo scoperto che uno dei meccanismi con cui l’iperglicemia riduce le cellule staminali passa attraverso una molecola chiamata Oncostatina M che stimola la produzione di cellule infiammatorie e trattiene le cellule staminali nel midollo, creando un circolo vizioso. Ora intendiamo verificare se Oncostatin M può essere un target terapeutico per la cura dei pazienti con COVID-19».

«L’iperglicemia all’ingresso in ospedale era presente in quasi la metà dei pazienti ricoverati per COVID-19 – conclude il prof. Angelo Avogaro, direttore della Diabetologia dell’Azienda Ospedale-Università di Padova, facendo comprendere l’enorme rilevanza di questo problema nell’attuale fase pandemica –. Ampliando le conoscenze sulle interazioni tra iperglicemia, cellule staminali e COVID-19 questo studio aiuta a identificare un nuovo potenziale bersaglio terapeutico per spegnere l’eccessiva risposta immuno-infiammatoria che conduce i pazienti con infezione da SARS-CoV-2 a sviluppare complicanze gravi ed a soccombere al virus».

Link alla ricerca:

https://diabetesjournals.org/diabetes/article/doi/10.2337/db21-0965/140945/Hyperglycemia-Reduced-Hematopoietic-Stem-Cells-and

Titolo: “Hyperglycemia, reduced hematopoietic stem cells, and outcome of COVID-19” – «Diabetes» – 2022

Autori: Benedetta Maria Bonora, Paola Fogar, Jenny Zuin, Daniele Falaguasta, Roberta Cappellari, Annamaria Cattelan, Serena Marinello, Anna Ferrari, Angelo Avogaro, Mario Plebani, Daniela Basso, Gian Paolo Fadini.

Gian Paolo Fadini

Gian Paolo Fadini è Professore Associato di Endocrinologia presso l’Università degli Studi di Padova e Dirigente Medico presso la Divisione di Malattie del Metabolismo dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Padova. È anche Principal investigator del Laboratorio di Diabetologia Sperimentale presso l’Istituto Veneto di Medicina Molecolare (http://www.vimm.it/scientific-board/gian-paolo-fadini/), una struttura scientifica traslazionale e di base.

L’attività didattica del Prof. Fadini è rivolta agli studenti del Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia e del Corso di Specialità in Endocrinologia e Metabolismo, mentre le attività di ricerca sono dedicate allo studio delle complicanze croniche del diabete, delle cellule staminali nel diabete, dell’angiogenesi, dell’aterosclerosi, della calcificazione e rigenerazione vascolare, della guarigione delle ulcere, delle sindrome metabolica e insulino-resistenza, dello stress ossidativo, delle complicanze diabetiche acute, e dei meccanismi genetiche di longevità delle malattie metaboliche.

Con una serie di studi clinici traslazionali sulle cellule progenitrici endoteliali, l’attività di ricerca del Prof. Fadini ha contribuito alla comprensione di come il diabete induca danno vascolare e comprometta la riparazione endoteliale. Come evoluzione di questo campo di studi, il Prof. Fadini è passato a considerare il midollo osseo, che regola le cellule staminali vascolari e la rigenerazione, come bersaglio delle complicanze diabetiche. In ambito clinico, il Prof. Fadini ha condotto studi utilizzando dati clinici accumulati routinari sugli esiti cardiovascolari e sull’efficacia nel mondo reale dei farmaci ipoglicemizzanti, inclusa la serie di studi osservazionali nazionali DARWIN.

Al Professor Gian Paolo Fadini è stato assegnato il premio Minkowski, il riconoscimento europeo più prestigioso nel campo delle ricerche sul diabete, per le sue ricerche sul ruolo delle alterazioni delle cellule staminali nelle complicanze vascolari del diabete.

Il Prof. Fadini è Associate Editor per Atherosclerosis, Journal of Endocrinological Investigation e Nutrition Metabolism & Cardiovascular Disease, è membro del board di European Heart Journal, Diabetes Obesity & Metabolism e Cardiovascular Diabetology edex membro del consiglio di Diabetes e Clinical Science e revisore (tra gli altri) per: Lancet Diabetes & Endocrinology, Circulation, Circulation Research, J Am Coll Cardiol, ATVB, Stem Cells, Stroke, Diabetologia, Diabetes Care. Ha pubblicato più di 300 articoli su riviste peer-review, con un H-index di 54.

 

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova, sullo studio pubblicato su Diabetes, che indaga la relazione tra cellule staminali e COVID-19 grave.

DA UNO STUDIO VIMM-UNIVERSITÀ DI PADOVA UN NUOVO METODO PER STIMOLARE LE CELLULE STAMINALI NELLE PERSONE AFFETTE DA DIABETE 

La ricerca è stata pubblicata su Diabetologia, la rivista ufficiale della Società Europea per lo Studio del Diabete (EASD).

cellule staminali diabete retinopatia
Gian Paolo Fadini

Il fenofibrato, un farmaco routinariamente utilizzato per il trattamento degli elevati livelli di trigliceridi è in grado di stimolare il livello delle cellule staminali circolanti in pazienti con retinopatia diabetica: è quanto emerge da uno studio condotto dai ricercatori del Dipartimento di Medicina dell’Università di Padova e dell’Istituto Veneto di Medicina Molecolare (VIMM) sotto il coordinamento di Gian Paolo Fadini, Professore Associato di Endocrinologia e Principal Investigator dell’Unità di Diabetologia Sperimentale del VIMM.

L’articolo – pubblicato su «Diabetologia», la rivista ufficiale della Società Europea per lo Studio del Diabete (EASD) – parte, secondo la ricostruzione di Benedetta Bonora prima autrice dello studio, dalle precedenti osservazioni di due grandi studi internazionali che indicavano come il fenofibrato, un farmaco comunemente utilizzato anche nei diabetici per abbassare la concentrazione di trigliceridi nel sangue, fosse in grado di proteggere dalla progressione della retinopatia, una  temibile complicanza cronica del diabete che può portare alla cecità e per la quale le armi terapeutiche a disposizione sono limitate.

“Avevamo notato – sottolinea Gian Paolo Fadini – che i pazienti diabetici con bassi livelli di cellule staminali circolanti hanno un rischio aumentato di progredire verso stadi più avanzati di retinopatia. Abbiamo quindi cercato di capire come sia possibile stimolare le cellule staminali circolanti, che hanno un ruolo chiave nel proteggere i tessuti e gli organi dal danno cronico e il cui meccanismo di protezione è compromesso dal diabete. Partendo da questo assunto, Il nostro laboratorio potrà lavorare nell’identificazione di approcci terapeutici per ripristinare la protezione d’organo tramite le cellule staminali nei pazienti con diabete”.

“Comprendere il meccanismo di un trattamento – aggiunge Angelo Avogaro, professore Ordinario di endocrinologia e Direttore della Diabetologia di Padova – è un passo fondamentale per permetterne un suo utilizzo su larga scala. Questo nuovo studio fornisce un importante contributo alle nostre conoscenze di come sia possibile prevenire la progressione di una delle più temibili complicanze croniche del diabete per cui, ancora oggi, ci sono limitate opportunità terapeutiche”.

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Link all’articolo: https://rdcu.be/ctKHn

Titolo: Fenofibrate increases circulating haematopoietic stem cells in people with diabetic retinopathy: a randomised, placebo-controlled trial

Autori: Gian Paolo Fadini, Benedetta Maria Bonora, Mattia Albiero, Mario Luca Morieri, Roberta Cappellari, Francesco Ivan Amendolagine, Marta Mazzucato, Alberto Zambon, Elisabetta Iori, Angelo Avogaro

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università di Padova.

È rientrato all’Università di Torino, dove si era laureato, dopo 10 anni di ricerca sulla genomica e l’ingegneria cardiaca a Cambridge e Seattle

ALESSANDRO BERTERO, DAGLI USA A TORINO PER STUDIARE LE MALATTIE AL CUORE

Il ricercatore piemontese è il vincitore del Career Development Award della Fondazione Armenise Harvard, che finanzia fino a un milione di dollari per 5 anni per l’avvio di nuovi laboratori di ricerca in Italia. 

Alessandro Bertero. Crediti: Maurizio Marino

Torino, 2 luglio 2021. Alessandro Bertero ha scelto Torino per avviare un laboratorio in cui svolgere le proprie ricerche sul cuore.

È un po’ come tornare a casa, sono partito da neolaureato e ora che ho la possibilità di essere leader di un team di ricerca sulle malattie cardiache, ho scelto di ritornare a Torino.” – spiega Alessandro Berteroche per10 anni ha lavorato all’estero, all’Università di Cambridge e di Washington.

Come “dote”, Bertero porta un finanziamento di 1 milione di dollari (200.000 dollari all’anno per 5 anni) della Fondazione Giovanni Armenise Harvard, vinto dopo essersi aggiudicato il competitivo bando Career Development Award del 2020.

Grazie a questo finanziamento, Alessandro Bertero dà ufficialmente il via al suo nuovo Laboratorio Armenise-Harvard di Genomica dello Sviluppo ed Ingegneria Cardiaca al Molecular Biotechnology Center (MBC) dell’Università di Torino. Lo stesso Ateneo dove aveva iniziato la sua formazione scientifica con il biologo cellulare Guido Tarone, laureandosi nel 2009 in biotecnologie e specializzandosi nel 2011 in biotecnologie mediche.

Alessandro Bertero Torino
Alessandro Bertero. Crediti: Maurizio Marino

Dopo aver vinto una borsa di dottorato dalla “British Heart Foundation”, Bertero si è trasferito all’Università di Cambridge nel Regno Unito, dove ha lavorato sulle cellule staminali. Successivamente ha continuato la sua carriera a Seattle grazie a un finanziamento di EMBO, che gli ha permesso di specializzarsi nei meccanismi dello sviluppo cardiaco, con un focus sulla cardiomiopatia dilatativa ereditaria, una grave malattia genetica al cuore ad oggi curabile soltanto attraverso il trapianto d’organo.

“Conosciamo troppo poco le basi molecolari delle malattie cardiache, che restano la più comune causa di morte – spiega Bertero – e l’obiettivo del mio laboratorio sarà proprio quello di capire quali sono i geni coinvolti in queste gravi patologie. E magari, in futuro, la mia ricerca potrebbe portare allo sviluppo di nuovi approcci terapeutici, in particolare di medicina rigenerativa per le cardiopatie congenite, la più comune malformazione potenzialmente letale nei neonati. Chiarire i meccanismi di regolazione genica alla base dello sviluppo embrionale e delle patologie cardiache può infatti fornire le conoscenze necessarie per generare cellule e tessuti da utilizzare per la rimuscolarizzazione del cuore”. 

“Siamo orgogliosi di riportare in Italia e presso Università degli Studi di Torino un altro ricercatore eccellente – dichiara la Prof.ssa Fiorella Altruda, Direttrice del Molecular Biotechnology Center dell’Università di Torino – che si aggiunge ad altri, con un riconoscimento prestigioso dalla Fondazione Armenise Harvard. Il Centro di Biotecnologie Molecolari con il dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute sta investendo su giovani che hanno maturato all’estero ottime competenze che dalla comprensione dei meccanismi cellulari aprono la via a nuovi approcci terapeutici. Il reclutamento di giovani ricercatori molto brillanti permette di aumentare la massa critica indispensabile per competere nella ricerca a livello internazionale.” 

33 anni e originario di Bra, comune in provincia di Cuneo, Alessandro Bertero è l’ultimo dei 29 vincitori del grant Career Development Award Armenise Harvard, che promuove la ricerca di base in campo biomedico.  Ogni anno la Fondazione premia uno o più promettenti giovani scienziati, italiani e non, che vogliano aprire un proprio laboratorio di ricerca in Italia.

Attualmente sono aperte le candidature per il Career Development Award 2021, con scadenza il prossimo 15 luglio. Tutte le informazioni sul sito della Fondazione Armenise Harvard https://armeniseharvard.org/

Testo dall’Università degli Studi di Torino

Istituto Italiano di Tecnologia – IIT e Sapienza Università di Roma: realizzati in laboratorio per la prima volta organoidi cerebrali per lo studio della Sindrome dell’X fragile
Questo risultato consentirà di studiare in vitro il meccanismo molecolare della malattia e testare futuri farmaci.

organoidi cerebrali sindrome X fragile
Dettaglio a livello cellulare degli organoidi cerebrali derivati da cellule iPS umane di Controllo viste al microscopio confocale. Credits: Istituto Italiano di Tecnologia – © IIT, all rights reserved

Riprodotti per la prima volta in laboratorio organoidi cerebrali (3D) come modello di studio della Sindrome dell’X Fragile, una malattia ereditaria legata a mutazioni nel gene FMRP localizzato sul cromosoma X, causa di disabilità cognitiva, problemi di apprendimento e relazionali.

Neuroni derivati da cellule iPS umane di Xfragile visti a microscopio confocale per identificazioni delle sinapsi glutammatergiche. Credits: Istituto Italiano di Tecnologia – © IIT, all rights reserved

Lo studio, pubblicato sulla rivista Cell Death and Disease, è il risultato di una collaborazione tutta italiana fra Istituto Italiano di Tecnologia – IIT e Sapienza Università di Roma. In particolare tra Silvia Di Angelantonio e Alessandro Rosa, entrambi docenti Sapienza e ricercatori affiliati presso il centro IIT di Roma “Center for Life Nano & Neuro-Science” coordinato da Giancarlo Ruocco e il gruppo D3Validation dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, coordinato da Angelo Reggiani.

organoidi cerebrali sindrome X fragile
Organoidi cerebrali ottenuti da cellule iPS umane di controllo viste al microscopio confocale. Credits: Istituto Italiano di Tecnologia – © IIT, all rights reserved

Gli organoidi 3D sono strutture cellulari tridimensionali artificiali, generate a partire da cellule staminali umane, che riproducono le caratteristiche dei veri organi. Si tratta di modelli in vitro che mostrano condizioni molto simili a quelle umane sia dal punto di vista fisiologico che patologico e che mimano in vitro l’interazione tra cellule. Negli ultimi anni la messa a punto di organoidi cerebrali umani derivati da cellule staminali pluripotenti indotte (cellule iPS, Premio Nobel per la Medicina 2012) ha permesso di ridurre i test condotti su modelli animali e ha aperto nuovi orizzonti per lo studio delle malattie del neuro-sviluppo come autismo e schizofrenia o della nota infezione da Zika virus.

organoidi cerebrali sindrome X fragile
Organoidi cerebrali ottenuti da cellule iPS umane di Xfragile viste al microscopio confocale. Credits: Istituto Italiano di Tecnologia – © IIT, all rights reserved

Le cellule iPS sono cellule staminali che si possono ottenere ‘riprogrammando’ cellule non staminali, per esempio del sangue o della pelle, prelevate da qualunque individuo adulto.

organoidi cerebrali sindrome X fragile
Dettaglio a livello cellulare degli organoidi cerebrali derivati da cellule iPS umane di Xfragile viste al microscopio confocale. Credits: Istituto Italiano di Tecnologia – © IIT, all rights reserved

In questo studio le colture cellulari classiche (2D) e gli organoidi cerebrali (3D) sviluppati a partire da cellule iPS, riproducono in vitro alcune caratteristiche tipiche della sindrome dell’X Fragile, consentendo ai ricercatori di studiare il meccanismo molecolare della patologia e di dimostrare  come la proteina FMRP sia necessaria per supportare correttamente la proliferazione delle cellule neuronali e gliali e per impostare il corretto rapporto eccitazione-inibizione nello sviluppo del cervello umano.

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Organoidi cerebrali ottenuti da cellule iPS umane di controllo. Le frecce rosse indicano lo sviluppo di strutture corticali. Credits: Istituto Italiano di Tecnologia – © IIT, all rights reserved

Lo studio su modelli cellulari 3D, inoltre, ha permesso di scoprire uno squilibrio di dimensioni tra organoidi X fragile e organoidi di controllo cioè sani, ma soprattutto uno squilibrio in termini di bilancio eccitazione – inibizione delle cellule di X Fragile a favore dell’ipereccitabilità che si potrebbe ipotizzare essere alla base delle crisi epilettiche, sintomi tipici dei pazienti X Fragile.

organoidi cerebrali sindrome X fragile
Organoidi cerebrali ottenuti da cellule iPS umane di X Fragile. Le frecce rosse indicano lo sviluppo di strutture corticali. Credits: Istituto Italiano di Tecnologia – © IIT, all rights reserved

Questi risultati ampliano le conoscenze sulla Sindrome dell’X Fragile e gettano le basi per lo screening di nuovi farmaci efficaci per questa patologia oltre al riposizionamento di quelli già in uso.

Silvia Di Angelantonio, ricercatrice affiliata presso il centro IIT di Roma “Center for Life Nano & Neuro-Science”. Credits: Istituto Italiano di Tecnologia – © IIT, all rights reserved

 “Ad oggi questo lavoro è il primo a dimostrare la possibilità di studiare la Sindrome dell’X Fragile in organoidi cerebrali e suggerisce che questa piattaforma sperimentale possa essere applicata per modellizzare in vitro la Sindrome dell’X Fragile” dichiara Silvia Di Angelantonio, ricercatrice affiliata presso il centro IIT – Center for Life Nano & Neuro-Science e docente Sapienza.

Alessandro Rosa, ricercatore affiliato presso il centro IIT di Roma “Center for Life Nano & Neuro-Science”
Caption: Alessandro Rosa, ricercatore affiliato presso il centro IIT di Roma. Credits: Istituto Italiano di Tecnologia – © IIT, all rights reserved

“L’uso di organoidi umani per lo studio di malattie come la Sindrome dell’X Fragile presenta notevoli vantaggi per la comprensione dei meccanismi molecolari che ne sono alla base” aggiunge Alessandro Rosa, ricercatore affiliato presso il centro IIT – Center for Life Nano & Neuro-Science e docente Sapienza.

Angelo Reggiani, Ricercatore Istituto Italiano di Tecnologia. Credits: Istituto Italiano di Tecnologia – © IIT, all rights reserved

“La disponibilità di organoidi derivati da cellule umane crea i presupposti per la identificazione di farmaci migliori e, in un futuro prossimo, di terapie sempre più personalizzate sulle necessità del malato” conclude Angelo Reggiani, coordinatore del laboratorio D3Validation dell’Istituto Italiano di Tecnologia.

Neuroni derivati da cellule iPS umane di controllo visti a microscopio confocale per identificazioni delle sinapsi glutammatergiche. Credits: Istituto Italiano di Tecnologia – © IIT, all rights reserved

Riferimenti:

Novel fragile X syndrome 2D and 3D brain models based on human isogenic FMRP-KO iPSCs – Carlo Brighi, Federico Salaris, Alessandro Soloperto, Federica Cordella, Silvia Ghirga, Valeria de Turris, Maria Rosito, Pier Francesca Porceddu, Chiara D’Antoni, Angelo Reggiani, Alessandro Rosa and Silvia Di Angelantonio – Cell Death & Disease https://doi.org/10.1038/s41419-021-03776-8

 

Testo e foto dell’Istituto Italiano di Tecnologia – IIT, Image Library; dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma