News
Ad
Ad
Ad
Tag

cambiamenti climatici

Browsing

I fossili raccontano la fine dell’era glaciale del tardo Paleozoico, 294 milioni di anni fa

Un team internazionale di scienziati di cui fanno parte l’Università degli Studi di Milano e l’Università Sapienza di Roma, analizzando fossili di brachiopodi ha dimostrato come nel Paleozoico l’incremento di anidride carbonica (CO2), dovuto a un’intensa attività vulcanica, sia risultato concomitante alla riduzione dei ghiacciai e a un incremento della temperatura superficiale media degli oceani fino a 4 gradi centigradi. Questo studio pubblicato su Nature Geoscience ci può aiutare a comprendere meglio i cambiamenti climatici attualmente in atto e le loro conseguenze.

1. Ricostruzione artistica della deglaciazione avvenuta nel Permiano Inferiore causata da un rapido incremento della CO2, avvenuta circa 294 milioni di anni fa (realizzato da Dawid Adam Iurino)
1. Ricostruzione artistica della deglaciazione avvenuta nel Permiano Inferiore causata da un rapido incremento della CO2, avvenuta circa 294 milioni di anni fa (realizzato da Dawid Adam Iurino)

Studiare il riscaldamento globale del passato per capire i cambiamenti climatici del presente. Durante la sua lunga storia, la Terra ha sperimentato condizioni climatiche molto diverse, alternando fasi glaciali a periodi di riscaldamento globale che hanno plasmato il pianeta e influenzato l’evoluzione degli organismi. Ancor prima della comparsa dei dinosauri, durante il tardo Paleozoico (circa 300 milioni di anni fa) ebbe luogo una delle glaciazioni più estese, terminata con una fase di riscaldamento che portò alla scomparsa quasi completa dei ghiacciai e delle calotte polari con importanti conseguenze sulla biodiversità.

2. Variazioni della concentrazione di CO2 in atmosfera prima, durante e dopo la deglaciazione di fine Paleozoico
2. Variazioni della concentrazione di CO2 in atmosfera prima, durante e dopo la deglaciazione di fine Paleozoico

Un team internazionale di scienziati, tra cui ricercatori dell’Università Statale di Milano, dell’Università la Sapienza di Roma e dell’Università di St. Andrews in Scozia, ha preso in esame la glaciazione del tardo Paleozoico e il suo declino, seguito da un considerevole aumento delle temperature, per comprendere meglio l’attuale emergenza climatica.

I risultati di questo studio, pubblicati sulla rivista internazionale Nature Geoscience, ricostruiscono per la prima volta i livelli atmosferici di CO2 lungo un arco temporale di 80 milioni di anni.

L’atmosfera del passato viene spesso studiata attraverso l’analisi di piccole bolle d’aria inglobate nelle calotte polari, grazie alle quali siamo capaci di ricostruire con precisione le variazioni climatiche fino a circa 800 mila anni fa. Ma la sfida affrontata da questo studio è stata quella di sviluppare metodologie in grado di risalire a un intervallo compreso tra 340 e 260 milioni di anni fa. Sono stati così presi in oggetto i fossili brachiopodi, invertebrati marini con una conchiglia costituita da carbonato di calcio, molto abbondanti durante il Paleozoico e tuttora rappresentati da alcune specie viventi. Dalle analisi è emerso come i livelli di CO2 fossero intimamente connessi all’evoluzione della glaciazione e alla sua fine. I ricercatori hanno infatti misurato bassi livelli di anidride carbonica concomitanti alla formazione di estese calotte polari. Viceversa, l’incremento di CO2, che fu il prodotto di un’intensa attività vulcanica, è risultato contemporaneo a una riduzione globale dei ghiacciai e a un incremento della temperatura superficiale media degli oceani fino a 4 gradi centigradi. E oggi, proprio come è avvenuto 300 milioni di anni fa, il riscaldamento dell’atmosfera, causato dall’aumento della presenza di CO2 e di gas metano, ha innescato una evidente riduzione dei ghiacciai e delle calotte polari.

“I fossili e le caratteristiche geochimiche dei loro resti sono una preziosa fonte di informazioni, che ci permette di ricostruire il clima e gli ambienti in cui questi organismi sono vissuti, anche nel tempo profondo, e confrontare questi dati con i cambiamenti attualmente in atto” afferma Lucia Angiolini, docente del Dipartimento di Scienze della Terra Ardito Desio dell’Università degli Studi di Milano.

3. La prof. Lucia Angiolini osserva e campiona materiale fossile da alcuni affioramenti rocciosi del Carbonifero in Scozia
3. La prof. Lucia Angiolini osserva e campiona materiale fossile da alcuni affioramenti rocciosi del Carbonifero in Scozia

“Mentre l’organismo cresce, la sua conchiglia si espande ed incorpora numerosi elementi e composti chimici che vanno a costituire una sorta di archivio per tutto il suo ciclo vitale. Infatti è noto come le conchiglie siano legate alla composizione dell’acqua marina e alla variazione di molteplici parametri tra cui la temperatura e l’acidità (pH)”, sottolinea Claudio Garbelli, docente dell’Università Sapienza di Roma.

“Alcuni elementi presenti nel carbonato di calcio delle conchiglie sono determinati dai valori di pH dell’acqua marina che, a sua volta, dipende dalla quantità di CO2 atmosferica”, aggiunge Hana Jurikova, ricercatrice dell’Università di St. Andrews in Scozia e prima autrice dello studio. “Misurando alcuni degli elementi contenuti nelle conchiglie fossili (quali ad esempio il boro e lo stronzio) e con l’ausilio di sofisticati modelli matematici, siamo stati in grado di ricostruire con una certa precisione la quantità di CO2 presente in atmosfera lungo un arco temporale di 80 milioni di anni, tra 340 e 260 milioni di anni fa”, conclude Jurikova.

Studi come questo, oltre ad evidenziare l’importanza dei fossili come archivi di informazioni utili per comprendere le dinamiche dei cambiamenti climatici e ambientali avvenuti nel passato, rappresentano una fonte di dati indispensabile per sviluppare modelli predittivi dei fenomeni attualmente in atto e del loro impatto sulla biodiversità.

4. Un brachiopode fossile del Permiano, chiamato Pachycyrtella, proveniente dal Permiano inferiore dell’Oman
4. I fossili raccontano la fine dell’era glaciale del tardo Paleozoico: un brachiopode fossile del Permiano, chiamato Pachycyrtella, proveniente dal Permiano inferiore dell’Oman

 

Riferimenti bibliografici:

Jurikova, H., Garbelli, C., Whiteford, R. et al. Rapid rise in atmospheric CO2 marked the end of the Late Palaeozoic Ice Age, Nat. Geosci. (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41561-024-01610-2

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma e dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.

CAMBIAMENTI CLIMATICI ED EVOLUZIONE DEI FIUMI ARTICI UNA “SORPRESA” DAL DISGELO DEL PERMAFROST 

Dalla ricerca pubblicata su «Nature Climate Change» emerge che una temperatura più alta modifica la vegetazione e l’infiltrazione d’acqua nelle pianure fluviali artiche, portando ad un rallentamento dell’erosione dei fiumi.

Il riscaldamento globale sta cambiando i paesaggi artici a causa del disgelo del permafrost, lo strato di terreno perennemente ghiacciato che ha ricoperto la tundra artica per millenni. Il disgelo del permafrost causa frane e smottamenti e, in casi estremi, può persino portare al prosciugamento di interi laghi. L’aspetto più allarmante però è il potenziale rilascio in atmosfera di enormi quantità di gas serra – tra cui metano, anidride carbonica e protossido di azoto – rimaste intrappolate nel permafrost per secoli. Si stima infatti che nel permafrost siano congelati 1400 miliardi di tonnellate di carbonio – una quantità quattro volte superiore a quella emessa dall’uomo dalla rivoluzione industriale ad oggi – e quasi il doppio di quella attualmente contenuta nell’atmosfera.

Emissioni significative di gas serra nelle regioni artiche sono generate dall’azione dei fiumi che, spostandosi lateralmente con velocità che possono arrivare a decine di metri all’anno, erodono terreni ricchi di permafrost. Infatti, l’acqua che scorre lungo un fiume tende a erodere sedimenti lungo le sponde concave e ri-depositarli lungo le sponde convesse, determinando così una migrazione laterale del fiume nel corso degli anni. L’indebolimento delle sponde dei fiumi a causa del disgelo del permafrost, nonché l’aumento dei flussi di acqua e sedimenti dovuti al degrado della criosfera, potrebbe favorire l’erosione delle sponde, aumentando la mobilità laterale dei fiumi e modificando ulteriormente le emissioni in atmosfera.

Ma l’aumento delle temperature e dell’umidità atmosferica che favoriscono lo scioglimento del permafrost hanno solo effetti negativi sul paesaggio artico? Per rispondere a questa domanda, un team di ricerca internazionale ha monitorato l’evoluzione dei grandi fiumi dell’Alaska e del Canada e svelato come, a seguito del forte riscaldamento della regione, i fiumi non si muovano come gli scienziati si aspettavano.

Lo studio, dal titolo “Large sinuous rivers are slowing down in a warming Arctic” e pubblicato su «Nature Climate Change», ha analizzato l’evoluzione dei 10 maggiori fiumi artici in Alaska (Stati Uniti), nello Yukon e nei Territori del Nord-Ovest (Canada) durante gli ultimi 50 anni. La ricerca, coordinata da Alessandro Ielpi dell’Università della British Columbia e frutto della collaborazione tra il Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova, l’Università della British Columbia (Canada), l’Università di Stanford (USA) e l’Università Laval (Canada), rivela che una temperatura più alta modifica anche la vegetazione e i flussi d’acqua superficiali nelle pianure fluviali artiche: ciò rallenterebbe l’erosione dei fiumi e potrebbe influenzare il rilascio di gas serra causato dal disgelo del permafrost.

«Abbiamo testato l’ipotesi, ampiamente accettata dalla comunità scientifica, che il riscaldamento atmosferico e il conseguente disgelo del permafrost indeboliscano le sponde e provochino un aumento dei tassi di migrazione laterale dei fiumi artici. Per fare ciò – dice Alvise Finotello, ricercatore del Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova e autore della pubblicazione – abbiamo utilizzato sequenze di immagini satellitari ad alta risoluzione che coprono un periodo temporale di circa mezzo secolo. In totale, abbiamo analizzato più di mille chilometri di sponde distribuiti lungo 10 corsi d’acqua, tutti caratterizzati da larghezze comprese tra 100 e 1000 metri, così da poter essere facilmente identificabili anche nelle immagini satellitari più datate e risalenti agli anni Settanta. Lo studio è stato possibile grazie alle metodologie di analisi da remoto che il nostro gruppo di ricerca ha sviluppato nel corso degli anni, e che possono essere applicate a sistemi fluviali in diversi contesti climatici, dalle foreste tropicali ai deserti, fino appunto agli ambienti artici. Contrariamente a quanto ci aspettavamo di osservare, i nostri risultati mostrano una sorprendente riduzione dei tassi di migrazione laterale di dei fiumi nell’ordine del 20% negli ultimi 50 anni, una stima che potrebbe addirittura essere conservativa date le metodologie di analisi che abbiamo utilizzato».

Alvise Finotello
Alvise Finotello

«Tale rallentamento è con ogni probabilità dovuto ad una serie di effetti indiretti legati al riscaldamento atmosferico e al conseguente scioglimento del permafrost. Temperature più alte favoriscono lo sviluppo della vegetazione grazie a stagioni di crescita più calde e lunghe, un processo noto come inverdimento artico. Inoltre – spiega Alessandro Ielpi dell’Università della British Columbia e già visiting scientist al Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova nel 2019 – lo scioglimento del permafrost permette alle radici delle specie arbustive di penetrare più in profondità nel terreno rispetto a quanto accadeva nel passato. Radici più profonde aumentano la resistenza delle sponde e la capacità di ritenzione idrica delle piane alluvionali, riducendo così i tassi di erosione e la velocità di migrazione laterale dei fiumi».

Alessandro Ielpi
Cambiamenti climatici ed evoluzione dei fiumi artici, una “sorpresa” dal disgelo del permafrost. In foto, Alessandro Ielpi

Poiché una ridotta mobilità dei fiumi ha un impatto diretto sui flussi di gas serra rilasciati dall’erosione di terreni ricchi di permafrost, i risultati dello studio avranno importanti ramificazioni per quanto riguarda i bilanci delle emissioni globali e i cambiamenti climatici futuri ad essi connessi.

Link alla ricerca: https://doi.org/10.1038/s41558-023-01620-9

Titolo: “Large sinuous rivers are slowing downin a warming Arctic” – «Nature Climate Change» – 2023

Autori: Alessandro Ielpi, Mathieu G.A. Lapôtre, Alvise Finotello, Pascale Roy-Léveillée

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Padova.

L’importanza dell’Accordo di Parigi per le montagne e la loro biodiversità 
Il raggiungimento degli obiettivi definiti dall’accordo di Parigi sul clima favorirebbe in modo cruciale la sopravvivenza dei carnivori e degli ungulati di montagna. Ad affermarlo è uno studio condotto dal Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza e pubblicato sulla rivista Conservation Biology.

Stambecco delle Alpi Capra ibex accordo Parigi montagne biodiversità
L’importanza dell’Accordo di Parigi per le montagne e la loro biodiversità. Stambecco delle Alpi (Capra ibex). Foto di Manfred Werner – Tsui, CC BY-SA 3.0

La montagna rappresenta da sempre un luogo di grande diversità biologica. Pur occupando una minima parte della superficie terrestre, circa il 20%, è in grado di ospitare ben 1/3 della diversità delle specie del mondo e metà di tutti gli hotspot di biodiversità globali.

Gli ambienti montani hanno fornito un rifugio a numerose specie durante i cambiamenti climatici del passato e potrebbero offrirlo anche in futuro, soprattutto a quelle che vivono immediatamente ai margini delle catene montuose. Ma le specie endemiche, già a rischio di estinzione, richiedono comunque imminenti misure di conservazione.

Le misure per limitare il fenomeno del riscaldamento globale (a 1,5 °C e 2 °C rispetto ai livelli preindustriali), stabilite con l’accordo di Parigi del 2015 tra gli Stati membri della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, potrebbero favorire anche la salvaguardia dei mammiferi delle aree montane.

È quanto emerge da un nuovo studio, condotto da Chiara Dragonetti e Valeria Y. Mendez e coordinato da Moreno Di Marco del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza. In particolare, i ricercatori hanno analizzato la situazione dei carnivori e degli ungulati di montagna nel 2050, proiettando al futuro le loro nicchie climatiche, cioè l’insieme delle condizioni climatiche che permettono la sopravvivenza di una determinata specie.

I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista Conversation Biology, dimostrano che il rischio per la sopravvivenza dei carnivori e degli ungulati di montagna globalmente non è elevata, e che nessuna specie ha una probabilità di riduzione della propria nicchia climatica superiore al 50%. Il raggiungimento degli impegni dell’accordo di Parigi diminuirebbe però sostanzialmente l’instabilità climatica per le specie montane. Infatti, limitare il riscaldamento globale al di sotto di 1,5 °C comporterebbe una diminuzione della probabilità di contrazione di nicchia del 4% rispetto a uno scenario ad alte emissioni.

“A livello globale i mammiferi di montagna potrebbero essere in media meno in pericolo rispetto ad altri mammiferi – spiega Chiara Dragonetti, prima autrice dello studio – ma ci sono importanti eccezioni da tenere in considerazione, come per tutte le specie altamente endemiche, che non potranno trovare climi adatti altrove”.

Le montagne hanno fornito un rifugio a numerose specie durante i cambiamenti climatici del passato e potrebbero offrirlo anche in futuro, soprattutto a quelle specie che vivono immediatamente ai margini delle catene montuose. Ma le specie endemiche già a rischio di richiedono comunque imminenti misure di conservazione.

“Per proteggere la biodiversità montana saranno quindi necessari – aggiunge Dragonetti – sia una forte politica di mitigazione del clima, sia rapidi interventi di conservazione che abbiano come target le specie già vulnerabili. Inoltre, azioni mirate per un uso più sostenibile del suolo dovrebbero far parte delle politiche internazionali per preservare le montagne tropicali, soprattutto in Africa, Sud-est asiatico e Sud America. Queste sono infatti le zone del mondo con la più alta biodiversità montana, ma anche quelle che affrontano le sfide più grandi in termini di sviluppo e crescita della popolazione”.

“Gli obiettivi climatici definiti dall’accordo di Parigi – conclude Moreno Di Marco, coordinatore del laboratorio Biodiversity & Global Change della Sapienza – derivano da negoziazioni politiche che non sempre trovano riscontro scientifico per quanto riguarda i sistemi biologici. Con questo lavoro dimostriamo che non raggiungere l’accordo di Parigi comporta rischi seri per la biodiversità e per i delicati equilibri ecosistemici degli ambienti montani”.

Riferimenti:
Scenarios of change in the realized climatic niche of mountain carnivores and ungulates – Chiara Dragonetti, Valeria Y. Mendez A, Moreno Di Marco – Conservation Biology (2022)  https://doi.org/10.1111/cobi.14035

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

L’abete rosso in Scandinavia: una colonizzazione che ha avuto inizio più di 10.000 anni fa 

La recente scoperta di antichi resti di DNA antico, presenti nei sedimenti lacustri al margine meridionale della calotta glaciale scandinava e attribuibili all’abete rosso, porta nuova luce sulle dinamiche di risposta delle foreste ai cambiamenti climatici del passato. Lo studio internazionale, coordinato dalla Sapienza, è stato pubblicato su Nature Communications.

Härjehågna

L’abete rosso è oggi la specie arborea più comune in Fennoscandia, la parte d’Europa che comprende la Finlandia e la penisola scandinava. Diversi studi, basati su ritrovamenti di polline fossile di abete in antichi sedimenti lacustri, hanno dimostrato che ci sono volute diverse migliaia di anni prima che questa specie giungesse in Svezia dopo l’ultima glaciazione e diventasse la specie dominante delle foreste scandinave. Secondo tali analisi l’abete sarebbe giunto in Svezia dal nord-est solo 2.000 anni fa.

abete rosso in Scandinavia

Oggi, un nuovo studio che utilizza il DNA ambientale antico conservato negli stessi sedimenti dimostra che l’abete rosso era invece presente in Svezia meridionale già dopo l’ultima glaciazione, circa 14.000 anni fa. Il lavoro, coordinato dal Dipartimento di Biologia ambientale della Sapienza e dall’Università di Uppsala in Svezia, in collaborazione con gruppi di ricerca di Università europee e giapponesi, è stato pubblicato sulla rivista Nature Communications.

abete rosso in Scandinavia

Contrariamente a quanto sempre creduto, infatti l’abete rosso sembra essere uno dei primi alberi che ha colonizzato la Svezia, sebbene riuscì a diffondersi in larga misura solo 2.000 anni fa. Cosa abbia trattenuto l’abete per le successive migliaia di anni però non è ancora del tutto chiaro.

Questi ultimi risultati hanno evidenziato una somiglianza genetica fra i gruppi di abeti solitari che oggi crescono e si riproducono vegetativamente (cloni) in alto sui pendii montuosi nella Svezia centrale e quelli che arrivarono successivamente dal nord-est, dimostrando il ruolo delle piccole popolazioni arboree locali superstiti nella ricolonizzazione delle foreste del nord Europa dopo l’ultima glaciazione.

L’abete rosso in Scandinavia: una colonizzazione che ha avuto inizio più di 10.000 anni fa

“Le analisi genetiche mostrano che l’abete svedese è sopravvissuto molto vicino alla calotta glaciale – spiega Laura Parducci della Sapienza, coordinatrice del lavoro – e abbia dunque sperimentato diversi tentativi per impossessarsi delle foreste scandinave, ma che solo l’ultima espansione abbia avuto successo”.

Gli studi sulla conservazione e il ripristino delle foreste sono strumenti importanti per contrastare le minacce causate dalla frammentazione degli habitat e dai cambiamenti climatici. Tuttavia, per favorire la diversificazione e la resilienza delle foreste è necessario prima comprendere le dinamiche della risposta delle foreste ai cambiamenti climatici del passato. Pertanto, l’utilizzo del DNA antico per la comprensione della velocità con cui l’abete ha ricolonizzato la Fennoscandia è di grande importanza per prevedere le risposte ecologiche al futuro riscaldamento climatico.

abete rosso in Scandinavia

Riferimenti:

Norway spruce postglacial recolonization of Fennoscandia – Kevin Nota, Jonatan Klaminder, Pascal Milesi, Richard Bindler, Alessandro Nobile, Tamara van Steijn, Stefan Bertilsson, Brita Svensson, Shun K. Hirota, Ayumi Matsuo, Urban Gunnarsson, Heikki Seppä, Minna M. Väliranta, Barbara Wohlfarth, Yoshihisa Suyama & Laura Parducci – Nature Communications DOI https://doi.org/10.1038/s41467-022-28976-4

abete rosso in Scandinavia

 

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

CLIMA DI FINE SECOLO E AGRICOLTURA “EROICA” 

Studio dell’Università di Padova dimostra che tra tre generazioni il cambiamento climatico provocherà un’espansione di zone a clima arido con condizioni di scarsità idrica.

Penalizzati saranno i paesaggi agricoli in forte pendenza, luoghi di agricoltura eroica e di grande valore storico culturale.

Clima di fine secolo e agricoltura “eroica”: coltivazione di arancio su terrazzamenti in aree ad alta pendenza a Valencia (Spagna)

Pubblicata su «Nature Food» la ricerca dal titolo “Future climate-zone shifts are threatening steep-slope agriculture”, coordinata dal Professor Paolo Tarolli del Dipartimento di Territorio e Sistemi Agro-Forestali dell’Università di Padova, in cui si mostra quale sarà l’impatto del cambiamento climatico sulle aree agricole a forte pendenza alla fine del secolo. Lo studio è basato sulla proiezione delle zone climatiche attuali (1980-2016) a fine secolo (2071-2100) secondo lo scenario di concentrazione di gas serra RCP8.5, ovvero senza l’adozione di iniziative a favore della protezione del clima e, pertanto, con crescita delle emissioni ai ritmi attuali. Sono stati utilizzati dati satellitari e territoriali open-access, analizzati tramite la piattaforma online Google Earth Engine, in modo che la metodologia possa essere replicata non solo da scienziati, ma anche da operatori del settore agricolo ed enti per la gestione del territorio.

clima agricoltura eroica
Paolo Tarolli

«In questo lavoro abbiamo prodotto una mappa globale ad alta risoluzione dei paesaggi agricoli collinari e di montagna, analizzando la loro distribuzione nelle zone climatiche attuali (tropicale, arido, temperato, freddo, polare) e nelle proiezioni climatiche future – spiega il Professor Paolo Tarolli –. La nostra analisi dimostra che le aree agricole in forte pendenza sono significativamente più minacciate dal cambiamento climatico rispetto alla media della superficie agricola globale, in particolare vi sarà un’espansione di zone a clima arido, quindi di condizioni di scarsità idrica».

clima agricoltura eroica
Mappa globale ad alta risoluzione dei paesaggi agricoli di collina e montagna, con indicati i relativi siti patrimonio dell’umanità UNESCO e patrimonio agricolo globale GIAHS (FAO)

I sistemi agricoli in aree a forte pendenza, sebbene rappresentino una frazione ridotta della superficie agricola globale, sono di grande rilevanza per diversi aspetti. La loro importanza agronomica, così come il valore storico e culturale che li contraddistingue, sono ampiamente riconosciuti dalle Nazioni Unite e protetti con iniziative come i siti patrimonio dell’umanità UNESCO e patrimonio agricolo globale GIAHS (FAO). Le coltivazioni in pendenza sono soprattutto concentrate in Messico, Italia, Etiopia e Cina: si tratta di colture di altissima “specializzazione”. Tra gli esempi si possono citare le aree terrazzate Honghe Hani nella provincia cinese dello Yunnan, gestite dalle minoranze Hani da oltre 1300 anni, le quali producono 48 varietà di riso, dando vita ad un habitat ideale anche per l’allevamento di bovini, anatre e pesci, in un’ottica di economia circolare, oppure, in Italia, la viticoltura eroica sulle colline del Prosecco e del Soave.

Sul totale, l’agricoltura in forte pendenza si trova principalmente in zone climatiche temperate (46%) e fredde (28%): insieme, esse ospitano quasi tre quarti di questi paesaggi. Le coltivazioni in aree in pendenza delle regioni tropicali sono pari al 17%, nelle aride al 9% e in quelle polari arrivano all’1%, coprendo insieme il restante quarto del totale. Il cambiamento climatico rappresenterà una seria minaccia per tutta l’agricoltura e i sistemi rurali, con un impatto su raccolti e prezzi alimentari. In particolare, esso provocherà una variazione nell’estensione delle aree climatiche globali, con ripercussioni significative sui versanti agricoli in forte pendenza.

«Tra ottant’anni, secondo le proiezioni del nostro studio, la percentuale dei terreni agricoli di collina e montagna delle zone tropicali saliranno al 27% e quelle aride al 16%: sostanzialmente raddoppieranno rispetto alla situazione attuale. All’opposto, nelle regioni fredde si osserverà una riduzione di terreni agricoli di collina e montagna dall’attuale 28% al 13%, mentre in quelle temperate si passerà dal 46% al 44% – sottolinea Paolo Tarolli –. In sole tre generazioni quindi aree agricole più estese saranno interessate da un clima più caldo che comporterà un calo della disponibilità di acqua per l’irrigazione e la produzione alimentare. La nostra ricerca dimostra che le aree agricole in forte pendenza, spesso caratterizzate da un’alta specializzazione nella gestione dell’acqua derivante da antichi saperi tradizionali, saranno quelle maggiormente minacciate dal cambiamento climatico, soprattutto dalla siccità. Data l’urgente necessità di garantire una produzione alimentare sostenibile e per tutti riteniamo che i governi e le istituzioni debbano investire di più nell’identificazione e mitigazione degli effetti del cambiamento climatico in agricoltura. In particolare il nostro studio – conclude Tarolli – evidenzia la necessità di azioni atte a migliorare, specie per i paesaggi agricoli collinari e montani, la resilienza al cambiamento climatico previsto nei prossimi decenni, al fine di preservare il loro ruolo nella produzione alimentare, reddito, valore storico e culturale, e servizi ecosistemici».

Link alla ricerca: 10.1038/s43016-021-00454-y oppure https://rdcu.be/cGZ1M

Titolo: “Future climate-zone shifts are threatening steep-slope agriculture” – «Nature Food» 2022

Autori: Wendi Wang, Anton Pijl & Paolo Tarolli*

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova. sullo studio relativo a clima di fine secolo e agricoltura “eroica”.

La iena gigante che non ha resistito ai cambiamenti climatici 
Pachycrocuta brevirostris, la iena gigante dal muso corto diffusa nel Vecchio Mondo durante il Pleistocene, si è estinta in Europa circa 800 mila anni fa a seguito di cambiamenti climatici e ambientali e non a causa della competizione con altre specie che si diffusero nello stesso periodo. A svelarlo un nuovo studio del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza, pubblicato sulla rivista Quaternary Science Reviews.

Un super-predatore un tempo popolava Europa, Asia e Africa, la iena gigante dal muso corto Pachycrocuta brevirostris. Con un peso probabilmente superiore ai 100 chilogrammi, fu la iena più grande mai esistita. Diffusasi in Europa circa due milioni di anni fa, fu uno dei predatori più temibili che si trovarono ad affrontare le prime popolazioni di ominini avventuratesi fuori dall’Africa; sebbene il ruolo diretto delle iene come concorrenti ecologici degli ominini del Pleistocene venga spesso enfatizzato, esse erano comunque una componente unica della fauna incontrata da queste popolazioni.

Pachycrocuta brevirostris iena gigante dal muso corto
Pachycrocuta brevirostris, la iena gigante dal muso corto che non ha resistito ai cambiamenti climatici e ambientali

Le iene sono comunemente note per la loro abilità di rompere le ossa e cibarsi del loro contenuto, e Pachycrocuta brevirostris si era ben adattata a questa abitudine alimentare. La iena gigante era anche in grado di accumulare ossa, come oggi testimoniano alcuni siti che rappresentano un vero tesoro per i paleontologi. Durante il Pleistocene, gli ominini erano l’unico altro gruppo capace di sfruttare le ossa come risorsa alimentare, con l’ausilio di strumenti litici per romperle. Per questo motivo, la possibile competizione di queste popolazioni con la iena gigante suscita un grande interesse tra i ricercatori. Eppure, il motivo per cui la specie si estinse e la tempistica di questo evento in Europa rimanevano ancora avvolti nell’incertezza.

Un nuovo studio, condotto da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Scienze della Terra di Sapienza e pubblicato sulla rivista Quaternary Science Reviews, ha riconsiderato i fossili di Pachycrocuta brevirostris e di altre iene che si diffusero in Europa nel Pleistocene, rivelando che la iena gigante dal muso corto scomparve dall’Europa circa 800 mila anni fa, probabilmente a seguito di cambiamenti climatici e ambientali e non a causa della competizione con altre specie che si diffusero nello stesso periodo.

Pachycrocuta brevirostris, Crocuta crocuta e Hyaena prisca

Studi precedenti avevano infatti ipotizzato che la competizione generata dall’arrivo di Crocuta crocuta, l’attuale iena macchiata, potesse aver giocato un ruolo nell’estinzione di Pachycrocuta brevirostris. Tale ipotesi sarebbe supportata dalla coesistenza delle due specie in alcune località dove la iena gigante sopravvisse più a lungo. Tuttavia, i risultati di questa nuova ricerca vanno nella direzione opposta, escludendo l’ipotesi della compresenza e della competizione diretta tra queste iene.

“La scomparsa della iena gigante dall’Europa circa 800 mila anni fa – commenta Alessio Iannucci di Sapienza, primo nome dello studio – è pressappoco coincidente con l’arrivo della iena macchiata, Crocuta crocuta, e di un’altra specie meno nota, la “Hyaena” prisca. Tuttavia, queste specie furono in grado di diffondersi in Europa solo dopo il declino della iena gigante e non contribuirono alla sua estinzione”.

La iena gigante dunque, un tempo diffusa in tutto il continente, non fu in grado di far fronte ai cambiamenti climatici e ambientali che avvennero durante la transizione tra Pleistocene Inferiore e Pleistocene Medio, la cosiddetta “Early–Middle Pleistocene Transition”. Si tratta di un periodo che vide acuirsi l’intensità delle fluttuazioni tra intervalli glaciali e interglaciali, dando poi inizio all’era glaciale. L’avvicendamento tra Pachycrocuta brevirostris e le altre iene fu uno degli eventi più caratteristici del rinnovamento faunistico avvenuto in quel momento: diversi carnivori specializzati, come le tigri dai denti a sciabola, andarono in declino o si estinsero, mentre si diffusero specie nuove e più adattabili. Tra queste si ricordano le linee evolutive dei moderni cervi, cinghiali, daini e lupi, così come popolazioni umane in grado di produrre strumenti litici bifacciali (come cunei, o asce da pugno).

“Le specie meglio adattate a particolari ambienti o a strategie alimentari, come Pachycrocuta brevirostris, sono quelle più a rischio, ma anche quelle che si sono evolute facendo fronte alle fluttuazioni climatiche dell’ultimo milione di anni potrebbero non essere in grado di adattarsi ai rapidi cambiamenti causati dall’attività umana – conclude Raffaele Sardella di Sapienza. “Studiare la risposta degli ecosistemi del passato è cruciale per interpretare criticamente i cambiamenti climatici che osserviamo attualmente”.

 

Riferimenti:

The extinction of the giant hyena Pachycrocuta brevirostris and a reappraisal of the Epivillafranchian and Galerian Hyaenidae in Europe: faunal turnover during the Early-Middle Pleistocene Transition – Alessio Iannucci, Beniamino Mecozzi, Raffaele Sardella, Dawid Adam Iurino – Quaternary Science Reviews 2021, 272:107240. https://doi.org/10.1016/j.quascirev.2021.107240

 

Testo, video e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Biodiversità e clima: dal lago di Ocrida il segreto della resilienza delle foreste ai cambiamenti globali

Lo studio di un team internazionale di ricercatori coordinati dalla Sapienza, individua il ruolo del grande bacino d’acqua dolce situato al confine tra Albania e Macedonia del Nord, come di area di rifugio per le piante e gli alberi durante fasi climatiche sfavorevoli. La ricerca pubblicata su PNAS fornisce un importante contributo allo studio dei rifugi forestali e alle ricerche sulla conservazione e diversificazione delle foreste.

biodiversità clima lago di Ocrida
Biodiversità e clima: dal lago di Ocrida il segreto della resilienza delle foreste ai cambiamenti globali. In foto, il lago di Ocrida, piattaforma al tramonto. Foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

La conservazione e il ripristino delle foreste sono importanti strumenti di contrasto alle minacce causate dalla frammentazione degli habitat e dal cambiamento globale. Ma per favorire la diversificazione e la resilienza delle foreste occorre prima capire le dinamiche di risposta delle piante ai cambiamenti climatici del passato.

Uno studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), coordinato dal Dipartimento di Biologia ambientale della Sapienza, analizzando polline e spore fossili da campioni di sedimenti provenienti dal fondo del lago di Ocrida, un grande bacino d’acqua dolce situato al confine tra Albania e Macedonia del Nord, identifica e descrive la risposta di numerosi elementi forestali ai cambiamenti climatici determinati dalle oscillazioni glaciali-interglaciali negli ultimi 1,36 milioni di anni.

Il record dei sedimenti del lago di Ocrida rappresenta il più antico archivio lacustre continuo d’Europa, a partire da quando il lago si generò.

Questa nuova ricerca spiega l’importanza di un’area umida qual è il lago Ocrida, come rifugio per le piante durante le fasi climatiche meno favorevoli, quelle aride e fredde.

I risultati suggeriscono che circa 1,16 milioni di anni fa la zona del lago di Ocrida era caratterizzata da foreste che lasciarono il posto a un ambiente più aperto, con erbe e arbusti indicatori di un aumento dell’aridità e dell’approfondimento delle acque lacustri. A questa fase seguì un’altra transizione, circa 0,94 milioni di anni fa, dovuta alla risposta della vegetazione a cicli glaciali-interglaciali sempre più lunghi e accentuati. Numerose piante, altrove estinte o rare, hanno avuto una maggiore persistenza nella zona di Ocrida, dimostrando che il lago era un’area di rifugio, almeno fino a circa 1 milione di anni fa. Lo studio mette anche in evidenza come molti alberi abbiano avuto decrescite più o meno rapide, prima di scomparire.

“La valutazione degli effetti a lungo termine rispetto a clima globale e cambiamento della vegetazione locale – spiega Alessia Masi della Sapienza – rivela un’influenza significativa delle condizioni interglaciali umide sulla successiva composizione e diversità vegetale nel periodo glaciale”.

“Questo effetto – conclude Laura Sadori della Sapienza, coordinatrice dello studio – è opposto nelle osservazioni alle alte latitudini, dove l’intensità glaciale è nota per controllare la successiva vegetazione interglaciale, e le evidenze dimostrano che il bacino del lago di Ocrida ha funzionato come rifugio sia per le specie arboree termofile che per quelle temperate”.

Secondo gli autori, il record del lago di Ocrida può dare un contributo notevole alla gestione delle foreste e alle ricerche sulla loro resilienza ai futuri cambiamenti climatici.

 

Riferimenti:

1.36 million years of Mediterranean forest refugium dynamics in response to glacial-interglacial cycle strength  Timme Donders, Konstantinos Panagiotopoulos, Andreas Koutsodendris, Adele Bertini, Anna Maria Mercuri, Alessia Masi, Nathalie Combourieu-Nebout, Sébastien Joannin, Katerina Kouli, Ilias Kousis, Odile Peyron, Paola Torri, Assunta Florenzano, Alexander Francke, Bernd Wagner, Laura Sadori. – PNAS 2021 DOI: https://doi.org/10.1073/pnas.2026111118

 

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma