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UNA STELLA FATTA A PEZZI DA UN BUCO NERO: RARO EVENTO COSMICO OSSERVATO IN DUE GALASSIE IN COLLISIONE; L’EVENTO DI DISTRUZIONE MAREALE AT 2022wtn, NEL NUCLEO DELLA GALASSIA MENO MASSICCIA DELLA COPPIA (SDSSJ232323.79+104107.7)

 

Pubblicato sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society un articolo scientifico a guida dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) riporta l’osservazione di un raro evento di distruzione mareale (o TDE, dall’inglese Tidal Disruption Event) in una coppia di galassie in interazione. Chiamato AT 2022wtn, il fenomeno è stato segnalato alla comunità astronomica dalla Zwicky Transient Facility (ZTF) e quindi classificato come TDE grazie a osservazioni spettroscopiche a cui ha fatto seguito una campagna multi-frequenza nell’ambito della collaborazione ePessto+, coprendo lo spettro elettromagnetico dalla banda radio agli infrarossi, per arrivare fino ai raggi X. Questo studio apre nuove prospettive sui processi che si innescano quando una stella si avvicina troppo a un buco nero supermassiccio al centro di una galassia e sulla connessione tra questi eventi distruttivi e l’evoluzione dinamica delle galassie.

L’evento di distruzione mareale si è verificato nel nucleo della galassia meno massiccia della coppia (denominata SDSSJ232323.79+104107.7), circa dieci volte più piccola della sua compagna, in un sistema in fase iniziale di “fusione” che ha probabilmente già subito un primo passaggio ravvicinato.

AT 2022wtn mostra caratteristiche particolarmente insolite rispetto agli eventi simili già noti, come spiega Francesca Onori, assegnista di ricerca dell’INAF in Abruzzo e prima autrice dello studio.

“È un evento peculiare. La sua curva di luce è caratterizzata de un plateau nella fase di massima luminosità – della durata di circa 30 giorni – accompagnato da un brusco crollo della temperatura e una sequenza spettrale che mostra lo sviluppo di due righe in emissione in corrispondenza delle lunghezze d’onda dell’elio e dell’azoto. Qualcosa che non avevamo mai osservato con tanta chiarezza”.

Gli eventi di distruzione mareale si verificano quando una stella si avvicina a un buco nero supermassiccio, generalmente situato al centro di una normale galassia. La potente forza gravitazionale esercitata dal buco nero supera la forza di gravità che tiene insieme la stella, riuscendo prima a deformarla e poi a distruggerla, allungandola sino a formare sottili filamenti, in un processo, chiamato “spaghettificazione”, durante il quale viene rilasciata un’enorme quantità di energia osservabile da Terra. I frammenti stellari catturati formano un disco di materiale che orbita intorno al buco nero (il disco di accrescimento) che, cadendo su di esso, si riscalda a temperature altissime ed emette radiazioni intense alle frequenze X, UV e del visibile.

Tra gli aspetti più sorprendenti riportati nell’articolo c’è anche la rilevazione di un’emissione radio transiente, segno della presenza di flussi di materia in uscita (outflow in inglese), e forti variazioni nel tempo delle velocità delle linee spettrali. Tutti questi indizi indicano che una stella di bassa massa è stata completamente distrutta da un buco nero supermassiccio di circa un milione di masse solari, generando il disco di accrescimento e una sorta di “bolla” quasi sferica di gas espulso in espansione.

“Abbiamo trovato tracce chiare della dinamica del materiale circostante anche in alcune righe in emissione – spiega Francesca Onori – che mostrano caratteristiche compatibili con una veloce propagazione verso l’esterno. Grazie alla nostra campagna di monitoraggio siamo riusciti a proporre un’interpretazione dell’origine della radiazione osservata: AT2022wtn ha dato luogo a una rapida formazione del disco attorno al buco nero e alla successiva espulsione di parte della materia stellare. Questo risultato è particolarmente rilevante, poiché la sorgente della luce visibile e le condizioni fisiche della regione da cui essa proviene, nei TDE, sono ancora oggetto di studio”.

Il gruppo di ricerca si è inoltre concentrato sull’ambiente galattico dell’evento. AT 2022wtn è il secondo TDE osservato in una coppia di galassie in interazione, una coincidenza che, secondo quanto si legge nello studio, non è casuale: le prime fasi delle fusioni galattiche potrebbero infatti favorire un aumento della frequenza di questi fenomeni estremi, ancora poco compresi.

“Questa eccellente scoperta scientifica mette in luce quanto l’astrofisica moderna richieda sempre maggiori conoscenze interdisciplinari e notevoli capacità di analisi multibanda. È davvero molto importante che l’INAF sia pronto a raccogliere queste sfide scientifiche con giovani ricercatrici come Francesca Onori”, conclude Enzo Brocato, dirigente di ricerca presso l’INAF a Roma e tra gli autori dell’articolo.

Immagine dal Legacy Survey DR10 del campo di AT 2022wtn. Nel riquadro viene mostrato il transiente che si è verificato nel nucleo della galassia minore in interazione, indicata dalla croce blu. Sono ben visibili le code mareali, risultato dell’interazione gravitazionale e della fusione tra le due galassie. Crediti: Legacy Surveys / D. Lang (Perimeter Institute) / INAF / F. Onori
Immagine dal Legacy Survey DR10 del campo di AT 2022wtn. Nel riquadro viene mostrato il transiente che si è verificato nel nucleo della galassia minore in interazione, indicata dalla croce blu. Sono ben visibili le code mareali, risultato dell’interazione gravitazionale e della fusione tra le due galassie. Crediti: Legacy Surveys / D. Lang (Perimeter Institute) / INAF / F. Onori

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “The case of AT2022wtn: a Tidal Disruption Event in an interacting galaxy”, di F. Onori, M. Nicholl, P. Ramsden, S. McGee, R. Roy, W. Li, I. Arcavi, J. P. Anderson, E. Brocato, M. Bronikowski, S. B. Cenko, K. Chambers, T. W. Chen, P. Clark, E. Concepcion, J. Farah, D. Flammini, S. González-Gaitán, M. Gromadzki, C. P. Gutiérrez, E. Hammerstein, K. R. Hinds, C. Inserra, E. Kankare, A. Kumar, L. Makrygianni, S. Mattila, K. K. Matilainen, T. E. Müller-Bravo, T. Petrushevska, G. Pignata, S. Piranomonte, T. M. Reynolds, R. Stein, Y. Wang, T. Wevers, Y. Yao, D. R. Young, è stato pubblicato sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

QUANDO UN BUCO NERO SI È RISVEGLIATO: LAMPI DI RAGGI X DA ANSKY

Un buco nero supermassiccio si è recentemente risvegliato, emettendo potenti lampi di raggi X. Grazie alle osservazioni del telescopio XMM-Newton, un team internazionale a cui partecipa anche l’Istituto Nazionale di Astrofisica, ha studiato questo raro fenomeno, offrendo nuove e preziose informazioni sul comportamento dei buchi neri supermassicci.

Un buco nero supermassiccio al centro della galassia SDSS1335+0728, situata a 300 milioni di anni luce dalla Terra, ha recentemente iniziato a rilasciare intensi e regolari lampi di raggi X, attirando l’attenzione degli astrofisici. Dopo decenni di inattività, questo colosso dalla smisurata forza di attrazione gravitazionale si è improvvisamente “risvegliato”, dando vita a un fenomeno raro che offre una straordinaria opportunità per studiare il comportamento di un buco nero in tempo reale. L’osservazione di questi lampi, resa possibili grazie al telescopio spaziale XMM-Newton dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), ha portato a scoperte senza precedenti sugli eventi energetici generati dai buchi neri supermassicci. I risultati del lavoro condotto da un team di ricercatrici e ricercatori internazionali, di cui fa parte anche l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), è stato pubblicato oggi sulla rivista Nature Astronomy.

Sebbene i buchi neri supermassicci (con masse di milioni o addirittura miliardi pari a quella del nostro Sole) siano noti per nascondersi al centro della maggior parte delle galassie, la loro stessa natura li rende difficili da individuare e quindi studiare. In contrasto con l’idea popolare che i buchi neri “divorino” continuamente materia, questi mostri gravitazionali possono passare lunghi periodi in una fase dormiente. Questo è stato il caso del buco nero al centro di SDSS1335+0728, soprannominato Ansky, che per decenni è rimasto inattivo. Nel 2019 qualcosa cambia, quando gli astronomi osservano un’improvvisa “accensione” della galassia, seguita da straordinari lampi di raggi X. Questi segnali hanno portato alla conclusione che il buco nero fosse entrato in una nuova fase attiva, trasformando la galassia che lo ospita in un nucleo galattico attivo.

Nel febbraio 2024, il team di ricerca guidato da Lorena Hernández-García, ricercatrice presso l’Università di Valparaíso in Cile, ha iniziato a osservare i lampi regolari di raggi X provenienti da Ansky.

“Questo raro evento ci permette di osservare il comportamento di un buco nero in tempo reale, utilizzando i telescopi spaziali XMM-Newton e quelli della NASA NICER, Chandra e Swift”, spiega. “Questo fenomeno è conosciuto come eruzione quasi periodica (in inglese Quasiperiodic Eruption, QPE) di breve durata ed è la prima volta che osserviamo un tale evento in un buco nero che sembra essersi risvegliato”.

Tali fenomeni sono stati finora associati a piccole stelle od oggetti che interagiscono con la materia in orbita attorno al buco nero stesso, il cosiddetto disco di accrescimento, ma nel caso di Ansky, non ci sono prove che una stella sia stata distrutta. Gli astronomi ipotizzano che i lampi possano derivare da oggetti più piccoli che disturbano ripetutamente il materiale del disco di accrescimento, generando potenti shock che liberano enormi quantità di energia. Ognuna di queste eruzioni sta rilasciando cento volte più energia rispetto alle eruzioni quasi periodiche tipiche: sono infatti dieci volte più lunghe e luminose, e con una cadenza mai osservata prima di circa 4,5 giorni, che mette alla prova i modelli teorici esistenti sui buchi neri.

Rappresentazione artistica del disco di accrescimento attorno al buco nero massiccio Ansky e della sua interazione con un piccolo oggetto celeste (crediti ESA)
Rappresentazione artistica del disco di accrescimento attorno al buco nero massiccio Ansky e della sua interazione con un piccolo oggetto celeste (crediti ESA)

Osservare l’evoluzione di Ansky in tempo reale offre agli astronomi un’opportunità unica per approfondire la comprensione dei buchi neri e degli eventi energetici che li alimentano. Attualmente, esistono ancora più modelli che dati sulle eruzioni quasi periodiche, e saranno quindi necessarie ulteriori osservazioni per comprendere a pieno il fenomeno.

“Nonostante la notevole attività nella banda dei raggi X, Ansky risulta ancora sopito nella banda radio”, commenta Gabriele Bruni, ricercatore dell’INAF e co-autore del lavoro pubblicato. “Infatti, né le nostre osservazioni con il radiotelescopio australiano ATCA, né le campagna osservativa radio che hanno osservato la sua regione di cielo negli ultimi anni hanno rilevato emissione dalla sua direzione, escludendo così la presenza di un getto relativistico prodotto durante la riattivazione del buco nero. Nei prossimi mesi continueremo a tenere d’occhio Ansky per scovare la possibile nascita di un getto come già verificato in altri casi di nuclei galattici attivi riattivati”.

Le eruzioni ripetitive di Ansky potrebbero anche essere associate alle onde gravitazionali, obiettivo dalla futura missione LISA dell’ESA. L’analisi di questi dati nei raggi X, insieme agli studi sulle onde gravitazionali, aiuterà a risolvere il mistero di come i buchi neri massicci evolvono e interagiscono con l’ambiente circostante.


Riferimenti bibliografici:

L’articolo “Discovery of extreme Quasi-Periodic Eruptions in a newly accreting massive black hole”, di Lorena Hernández-García, Joheen Chakraborty, Paula Sánchez-Sáez, Claudio Ricci, Jorge Cuadra, Barry McKernan, K.E. Saavik Ford, Arne Rau, Riccardo Arcodia, Patricia Arevalo, Erin Kara, Zhu Liu,Andrea Merloni, Gabriele Bruni, Adelle Goodwin, Zaven Arzoumanian, Roberto Assef, Pietro Baldini, Amelia Bayo, Franz Bauer, Santiago Bernal, Murray Brightman, Gabriela Calistro Rivera, Keith Gendreau,  David Homan, Mirko Krumpe, Paulina Lira, Mary Loli Martínez-Aldama, Mara Salvato e Belén Sotomayor è stato pubblicato online sulla rivista Nature Astronomy, (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41550-025-02523-9

Testo e immagini dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

Grazie ai venti da loro generati, che accelerano improvvisamente a grandi distanze, i buchi neri non sono solo divoratori di materia ma veri propri architetti cosmici, giocando un ruolo chiave nell’evoluzione delle galassie

Ricerca internazionale su Nature Astronomy guidata dall’Università di Firenze e da INAF – Osservatorio Astrofisico di Arcetri

Mosaico di immagini RGB delle galassie analizzate
Mosaico di immagini RGB delle galassie analizzate

buchi neri che si trovano al centro delle galassie non sono solo divoratori di materia ma veri propri architetti cosmici.

È la conclusione a cui è giunto un gruppo di ricercatori internazionali guidati dall’Università di Firenze e da INAF – Osservatorio Astrofisico di Arcetri, protagonisti di un lavoro pubblicato su Nature Astronomy (“Evidence of the Fast Acceleration of AGN-Driven Winds at Kiloparsec Scales” https://www.nature.com/articles/s41550-025-02518-6). Lo studio ha dimostrato per la prima volta che i venti generati dai buchi neri subiscono un’improvvisa accelerazione quando si allontanano dal centro galattico, giocando un ruolo chiave nell’evoluzione delle galassie.

“Ogni galassia ospita al centro un buco nero supermassiccio”, spiegano i primi firmatari dell’articolo Cosimo Marconcini e Alessandro Marconi, rispettivamente dottorando e docente di Astrofisica del Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Firenze. “Questi nuclei galattici attivi (AGN) mentre «mangiano» materia, generano forti venti di gas che si diffondono nello spazio circostante”.

Gli scienziati hanno scoperto un comportamento sorprendente: nei primi 3.000 anni luce (1 kiloparsec) dalla sorgente, i venti si muovono a velocità costante o addirittura rallentano un po’; in seguito, subiscono una drastica espansione, si riscaldano e accelerano, raggiungendo velocità tali da espellere dalla galassia tutto il gas che incontrano lungo la strada. A questo risultato i ricercatori sono arrivati analizzando i venti di 10 galassie osservate con il Very Large Telescope (VLT – European Southern Observatory) in Cile – la più importante struttura al mondo per l’astronomia – e con un nuovo strumento per la modellizzazione 3D dei dati, chiamato MOKA3D e da loro sviluppato.

Perché questa acquisizione è così importante? Perché i buchi neri supermassivi possono spingere il gas fuori dalle galassie, fermando la formazione stellare e influenzando la loro evoluzione.

“Infatti – spiegano i due ricercatori – i venti generati dagli AGN regolano la nascita delle stelle, perché se il vento spazza via troppo gas, la galassia avrà meno «carburante» per formarne di nuove. Possono, quindi, influenzare la distribuzione del gas e degli elementi chimici e addirittura fermare la crescita della galassia: se il vento è abbastanza forte da espellere il gas nello spazio intergalattico, la galassia stessa potrebbe smettere di crescere”.

La prossima frontiera consisterà nello studiare altre galassie, anche molto lontane, per capire se nell’universo è comune questo fenomeno, che fa dei buchi neri i modellatori delle galassie in cui vivono.

Immagine RGB della galassia Circinus
Immagine RGB della galassia Circinus (un’immagine RGB è anche detta immagine a falsi colori, in cui si evidenzia l’emissione di componenti diversi della galassia con colori diversi: blu=gas ionizzato che traccia i venti emessi dai buchi neri; rosso=emissione da parte di stelle giovani e parzialmente anche i venti provenienti dai buchi neri; verde=emissione diffusa delle stelle nella galassia)

Riferimenti bibliografici:

Marconcini, C., Marconi, A., Cresci, G. et al., Evidence of the fast acceleration of AGN-driven winds at kiloparsec scales, Nat Astron (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41550-025-02518-6

 

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Unità funzionale comunicazione esterna dell’Università degli studi di Firenze

Distinguere i buchi neri: sarà più facile grazie a un nuovo metodo basato sull’intelligenza artificiale sviluppato dall’Università di Milano-Bicocca

Pubblicato sulla rivista Physical Review Letters, lo studio rivoluziona i metodi tradizionali dell’astronomia delle onde gravitazionali.

Milano, 31 marzo 2025 – Un innovativo metodo basato sull’intelligenza artificiale che migliora la precisione nella classificazione di buchi neri e stelle di neutroni. È quello sviluppato da un team di ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca, guidato dal professor Davide Gerosa e supportato dallo European Research Council. Lo studio, pubblicato sulla rivista Physical Review Letters, mette in discussione un’ipotesi ritenuta valida per decenni e apre la strada a un’analisi più accurata dei segnali cosmici.

L’astronomia delle onde gravitazionali permette di osservare coppie di oggetti compatti quali stelle di neutroni e buchi neri: le onde gravitazionali sono infatti prodotte dallo spiraleggiamento e dalla fusione di questi sistemi binari. Le analisi tradizionali assumono a priori come distinguere i due oggetti in ciascuna binaria.

«Fino a oggi, il metodo più diffuso per l’identificazione degli oggetti prevedeva di etichettare il più massiccio come “1” e il meno massiccio come “2”. Tuttavia, questa scelta, apparentemente intuitiva, introduce ambiguità nelle misure, specialmente nei sistemi binari con masse simili. Ci siamo chiesti: è davvero la scelta migliore?», spiega Gerosa.

Il nuovo studio propone di superare questa limitazione utilizzando una tecnica di intelligenza artificiale chiamata spectral clustering che analizza l’insieme completo dei dati senza applicare etichette rigide a priori. Questo nuovo metodo consente di ridurre le incertezze nelle misure degli spin dei buchi neri, ovvero nella determinazione della velocità e della direzione di rotazione di questi oggetti. Una corretta misurazione dello spin è fondamentale per comprendere la formazione e l’evoluzione dei buchi neri. Il nuovo approccio migliora notevolmente la precisione di queste misure e rende più affidabile la distinzione tra buchi neri e stelle di neutroni.

«Questa pubblicazione mette in discussione un presupposto di lunga data che è alla base di tutte le analisi delle onde gravitazionali fino a oggi, e che è rimasto indiscusso per decenni», continua l’astrofisico. «I risultati sono sorprendenti: le misurazioni dello spin sono più precise e distinguere i buchi neri dalle stelle di neutroni diventa più affidabile».

Davide Gerosa, Università di Milano-Bicocca
Davide Gerosa, Università di Milano-Bicocca, alla guida del team di ricercatori che ha prodotto lo studio su Physical Review Letters, che impiega l’intelligenza artificiale per un nuovo metodo al fine di distinguere i buchi neri

Lo studio condotto ha immediate ricadute per l’analisi dei dati raccolti con gli attuali rivelatori di onde gravitazionali LIGO e Virgo, nonché con quelli di futura costruzione quali LISA e l’Einstein Telescope. Questa ricerca apre la strada a una revisione delle tecniche di analisi delle onde gravitazionali e sottolinea, inoltre, il ruolo crescente dell’intelligenza artificiale nella ricerca astrofisica.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa Università di Milano-Bicocca.

L’interazione tra buchi neri e onde gravitazionali si studia con un esperimento da tavolo

Lo studio, basato sulla tesi di Chiara Coviello, laureata in Fisica all’Unipi, è stato pubblicato sulla rivista AVS Quantum.

Uno studio basato sulla tesi di Chiara Coviello, laureata in Fisica all’Università di Pisa nel 2023 e adesso al King’s College di Londra per un dottorato di ricerca, è stato recentemente pubblicato dalla rivista AVS Quantum Science. Al centro dello studio – intitolato “Gravitational waves and Black Hole perturbations in acoustic analogues” – ci sono i buchi neri che, con il loro fascino oscuro, sono tra gli oggetti più affascinanti del cosmo e sono incredibilmente difficili da analizzare. Per comprenderli meglio, il gruppo di ricerca interdisciplinare di cui fa parte Coviello ha esaminato i buchi neri acustici, un equivalente analogico che intrappola le onde sonore e può essere creato in un esperimento da tavolo. Tra gli autori e le autrici dello studio ci sono anche la professoressa Marilù Chiofalo dell’Università di Pisa, i professori Dario Grasso dell’INFN di Pisa, Stefano Liberati della SISSA di Trieste e Massimo Mannarelli dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso, con la dottoressa Silvia Trabucco, dottoranda di ricerca al Gran Sasso Institute Science dopo essersi laureata in Fisica a Pisa.

buchi_neri UniPi esperimento da tavolo
L’interazione tra buchi neri e onde gravitazionali si studia con un esperimento da tavolo; lo studio pubblicato su AVS Quantum Science

Coviello e gli altri autori e autrici hanno indagato se i buchi neri acustici possano essere utilizzati per comprendere le interazioni tra le onde gravitazionali e i buchi neri astrofisici. In un’analisi teorica, hanno esplorato come generare perturbazioni simili a onde gravitazionali in un condensato di Bose-Einstein di atomi ultrafreddi, uno stato della materia in cui qualche centinaia di migliaia di atomi si comportano collettivamente come se fossero un unica grande molecola. Nei condensati di Bose-Einstein, le eccitazioni di più bassa energia sono perturbazioni della densità, descritte da particella quantistiche chiamate fononi. Nello studio, i fononi si muovono come particelle senza massa in una geometria che può essere ingegnerizzata in modo da riprodurre caratteristiche di un buco nero per quanti di luce, o fotoni, cioè un buco nero astrofisico. Negli analoghi buchi neri acustici, infatti, sono i fononi a rimanere intrappolati e al tempo stesso costituire la cosiddetta radiazione di Hawking, predetta dal celebre astrofisico Stephen Hawking per i buchi neri astrofisici. Utilizzando quanto noto sulle onde gravitazionali, le autrici e gli autori hanno sviluppato un dizionario tra buchi neri astrofisici e buchi neri acustici, per comprendere meglio gli effetti di perturbazioni simili alle onde gravitazionali sull’orizzonte acustico di un buco nero da laboratorio. L’idea è usare esperimenti di fisica della materia in tavoli ottici di qualche metro quadro come simulatori quantistici altamente accurati e controllabili per studiare proprietà di oggetti di interesse astrofisico e cosmologico.

“Siamo entusiasti che questa fisica possa essere studiata in esperimenti attualmente realizzabili, ad esempio con atomi ultra-freddi, offrendo un nuovo modo per analizzare questi sistemi in un ambiente controllato”, ha dichiarato l’autrice Chiara Coviello.

Chiara Coviello
Chiara Coviello

I risultati potrebbero essere utilizzati per studiare gli effetti di dissipazione e riflessione delle perturbazioni simili alle onde gravitazionali nei buchi neri acustici. Gli autori e le autrici ritengono che ciò contribuirà a far luce sui comportamenti universali e sul ruolo delle fluttuazioni quantistiche nei buchi neri astrofisici.

Il team di ricerca, composto da una collaborazione tra diverse università e centri di ricerca, intende proseguire lo studio analizzando le proprietà di viscosità dell’orizzonte acustico in relazione alla sua entropia, note per avere comportamenti universali, cioè non dipendenti dallo specifico sistema fisico. I risultati potrebbero fornire nuove intuizioni sulla teoria fisica di base e sulle simmetrie dei buchi neri astrofisici.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

IL BUCO NERO SUPERMASSICCIO 1ES 1927+654, CON LA CORONA OSCILLANTE

Grazie a una lunga campagna di osservazioni realizzate con il telescopio spaziale XMM-Newton dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), un gruppo internazionale di ricerca guidato dal Massachusetts Institute of Technology (MIT), di cui fa parte anche Ciro Pinto dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, ha rilevato oscillazioni quasi periodiche dei segnali X provenienti dalla “corona” di particelle che circonda un buco nero supermassiccio situato nel cuore di una galassia vicina. L’evoluzione di queste oscillazioni non solo suggerisce la presenza di un altro oggetto celeste in orbita attorno al buco nero, ma indica inoltre che questi oggetti compatti divorano la materia in modi più complessi di quanto gli astronomi inizialmente pensassero.

I risultati dello studio, in uscita sulla rivista Nature, suggeriscono che a produrre tale variabilità possa essere una nana bianca attorno al buco nero, che viene divorata a piccoli “morsi” a ogni orbita. Il lavoro, basato su osservazioni del buco nero supermassiccio 1ES 1927+654, al centro dell’omonima galassia situata in direzione della costellazione del Dragone, è stato presentato oggi al 245mo meeting dell’American Astronomical Society in corso a National Harbor (Maryland, Stati Uniti). Durante il meeting sono stati presentati altri due studi, dedicati a osservazioni dello stesso buco nero, firmati tra gli altri da Gabriele Bruni, Francesca Panessa e Susanna Bisogni dell’INAF.

I buchi neri supermassicci sono mostri cosmici che imprigionano qualsiasi cosa varchi il loro “confine”, una regione dello spaziotempo nota come orizzonte degli eventi. Previsti dalla teoria della relatività generale di Albert Einstein, si distinguono per la loro capacità di accrescere massa attraverso un disco di accrescimento riscaldato dall’attrito, emettendo luce visibile, ultravioletta e raggi X. Intorno al disco si sviluppa una corona di particelle caldissime che emette raggi X ad alta energia, la cui intensità varia in base alla quantità di materia che fluisce verso il buco nero.

Le emissioni descritte nell’articolo di Nature sono segnali a raggi X variabili nel tempo e in frequenza, chiamate oscillazioni quasi periodiche, o QPO (dall’inglese Quasi Periodic Oscillations). Le osservazioni hanno rivelato picchi di emissione X che variano su tempi scala brevissimi, dell’ordine di 500 secondi.

Gli autori dello studio, guidato da Megan Masterson del Massachusetts Institute of Technology, negli Stati Uniti, osservano 1ES 1927+654 con XMM-Newton fin dal 2011. All’inizio il buco nero si trovava in una fase di basso accrescimento, una sorta di “regime alimentare dietetico”. Le cose sono cambiate nel 2018, quando è entrato in una fase di accrescimento estremo, caratterizzata da una potente esplosione (outburst in inglese) associata all’emissione da parte del disco di accrescimento di luce visibile e ultravioletta, come pure di potenti venti relativistici: il segno tangibile di un “pasto abbondante”. In quell’occasione, i ricercatori hanno anche osservato la scomparsa dell’emissione X ad alta energia della corona – precedentemente osservata -, sinonimo di distruzione della corona stessa.

Dopo il ripristino del flusso di raggi X emessi dalla corona nel 2021, nuove osservazioni condotte sempre con XMM-Newton a luglio del 2022 hanno però mostrato rapide variazioni di questo flusso, con periodi compresi tra 400 e 1000 secondi. Il profilo di emissione presentava picchi che si alternavano a bruschi cali del segnale: le oscillazioni quasi periodiche (QPO), fluttuazioni dell’emissione X notoriamente difficili da rilevare nei buchi neri supermassicci, e che, a distanza di anni dalla loro scoperta, non si sa ancora per certo che cosa li produca fisicamente.

“A marzo del 2024, abbiamo osservato nuovamente il buco nero con XMM-Newton e le oscillazioni erano ancora presenti” sottolinea Ciro Pinto, ricercatore INAF, tra i firmatari dello studio. “L’oggetto orbitava a quasi la metà della velocità della luce, completando un’orbita ogni sette minuti”.

Per spiegare una tale curva di luce, il team ha proposto due ipotesi alternative. La prima ipotesi è che nei pressi del buco nero si sia verificato un evento di distruzione mareale, ossia la disintegrazione di un corpo celeste, ad esempio una stella, da parte delle forze di marea del buco nero. Un tale evento potrebbe spiegare la perturbazione della nube di particelle della corona. L’altra ipotesi prevede che a determinare il profilo di emissione di 1ES 1927+654 possa essere stata invece una nana bianca, un “cadavere stellare” catturato dalla immane forza di gravità del buco nero che, orbitando rapidamente attorno a esso, avrebbe spazzato via a ogni orbita il gas della corona responsabile delle emissioni.

I calcoli effettuati dai ricercatori sembravano avallare la seconda ipotesi. Le fluttuazioni dell’emissione X erano molto probabilmente determinate da una nana bianca dieci volte meno massiccia del Sole, che completa un’orbita attorno al buco nero, a una distanza di circa cento milioni di chilometri, ogni diciotto minuti circa.

Le nuove osservazioni hanno tuttavia messo in discussione entrambe le ipotesi. Lo studio dell’evoluzione della frequenza delle emissioni nel tempo ha infatti mostrato che le oscillazioni aumentavano la loro frequenza: un simile comportamento esclude che a produrre la curva di luce possa essere stato un evento di distruzione mareale, che avrebbe causato la scomparsa dei picchi di emissione X nell’arco di alcuni mesi. In questo caso, invece, le oscillazioni sono state osservate per almeno due anni. I dati di XMM-Newton del 2024 hanno mostrato inoltre che, su tempi scala ancora più lunghi, i picchi di emissione X coronali si sono stabilizzati, il che esclude anche l’ipotesi della nana bianca, o quanto meno che la distruzione sia avvenuta in un colpo solo. Si potrebbe però considerare una nana bianca alla quale il buco nero strappa materia “a piccoli bocconi”: questa non sarebbe stata consumata in un solo pasto, dunque, ma poco a poco.

A discriminare tra i vari scenari potrebbe essere un’altra osservazione, quella di onde gravitazionali. Quando due oggetti compatti, come nane bianche o buchi neri, ruotano l’uno attorno all’altro, vengono infatti prodotte queste increspature nello spazio tempo che si propagano nel cosmo. Se l’ipotesi della nana bianca fatta a pezzi “a piccoli morsi” dal buco nero fosse vera, si dovrebbero captare questi segnali: non con gli osservatori terrestri, che osservano onde gravitazionali ad alte frequenze, ma con osservatori spaziali come la futura missione LISA, il primo osservatorio spaziale di onde gravitazionali, che l’ESA lancerà nel 2035. Progettato per rilevare onde gravitazionali esattamente nella gamma di frequenze che 1ES 1927+654 sta emettendo, LISA potrebbe confutare o confermare l’ipotesi dei ricercatori.

“A partire dagli anni 2030 per questo tipo di astrofisica si apriranno nuove frontiere”, conclude Ciro Pinto. “Il primo grande passo verso nuove scoperte sarà il lancio della missione LISA, che permetterà la rilevazione di onde gravitazionali da buchi neri supermassicci. A questo obiettivo si aggiungerà la missione NewAthena che, dotata di ottiche più potenti dei precedenti osservatori a raggi X, fornirà misurazioni di oscillazioni quasi periodiche più accurate e per più sorgenti. Tale combinazione di strumenti è indispensabile per valutare quale tra le varie interpretazioni o modelli finora disponibili circa l’origine delle oscillazioni quasi periodiche sia corretta. Tutto ciò è rilevante per comprendere i meccanismi di formazione dei buchi neri supermassicci, ancora oggi in discussione”.

Illustrazione artistica che mostra una nana bianca in orbita attorno a un buco nero supermassiccio in accrescimento. Crediti: NASA/Sonoma State University, Aurore Simonnet
Illustrazione artistica che mostra una nana bianca in orbita attorno a un buco nero supermassiccio in accrescimento. Crediti: NASA/Sonoma State University, Aurore Simonnet

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “Millihertz Oscillations Near the Innermost Orbit of a Supermassive Black Hole”, di Megan Masterson et al., in uscita su Nature.

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

JWST OSSERVA UN ANTICHISSIMO BUCO NERO SUPERMASSICCIO DORMIENTE, A ‘RIPOSO’ DOPO UN’ABBUFFATA COSMICA, NELLA GALASSIA GN-1001830

È uno dei più grandi buchi neri supermassicci non attivi mai osservati nell’universo primordiale e il primo individuato durante l’epoca della reionizzazione. La scoperta, pubblicata sulla rivista Nature, è stata possibile grazie alle rilevazioni del telescopio spaziale James Webb. Allo studio hanno partecipato anche INAF, Scuola Normale Superiore di Pisa e Sapienza Università di Roma.

JWST buco nero dormiente GN-1001830 Illustrazione artistica che rappresenta l'aspetto potenziale del buco nero supermassiccio scoperto dal team di ricerca durante la sua fase di intensa attività super-Eddington. Crediti: Jiarong Gu
Illustrazione artistica che rappresenta l’aspetto potenziale del buco nero supermassiccio scoperto dal team di ricerca durante la sua fase di intensa attività super-Eddington. Crediti: Jiarong Gu

Anche i buchi neri schiacciano un sonnellino tra una mangiata e l’altra. Un team internazionale di scienziati, guidato dall’Università di Cambridge, ha scoperto un antichissimo buco nero supermassiccio “dormiente” in una galassia compatta, relativamente quiescente e che vediamo come era quasi 13 miliardi di anni fa. La galassia è GN-1001830. Il buco nero, descritto in un articolo pubblicato oggi sulla rivista Nature, ha una massa pari a 400 milioni di volte quella del Sole e risale a meno di 800 milioni di anni dopo il Big Bang, rendendolo uno degli oggetti più antichi e massicci mai rilevati.

Questo mastodontico oggetto è inoltre il primo buco nero supermassiccio non attivo, in termini di accrescimento di materia, osservato durante l’epoca della reionizzazione, una fase di transizione nell’universo primordiale durante la quale il gas intergalattico è stato ionizzato dalla radiazione delle prime sorgenti cosmiche. Probabilmente rappresenta solo la punta dell’iceberg di una intera popolazione di buchi neri “a riposo” ancora da osservare in questa epoca lontana. La scoperta, a cui partecipano ricercatrici e ricercatori anche dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), della Scuola Normale Superiore di Pisa e della Sapienza Università di Roma, si basa sui dati raccolti telescopio spaziale James Webb (JWST), nell’ambito del programma JADES (JWST Advanced Extragalactic Survey).

In che senso il buco nero è “dormiente”? Grazie a questi dati, il gruppo di ricerca ha stabilito che, nonostante la sua dimensione colossale, questo buco nero sta accrescendo la materia circostante a un ritmo molto basso a differenza di quelli di massa simile osservati nella stessa epoca (i cosiddetti quasar) – circa 100 volte inferiore al limite teorico massimo – rendendolo praticamente inattivo.

JWST buco nero dormiente GN-1001830 Immagine in falsi colori ottenuta dal telescopio spaziale JWST, che mostra una piccola frazione del campo GOODS-North. La galassia evidenziata nel riquadro ospita un antichissimo buco nero supermassiccio 'dormiente'. Crediti: JADES Collaboration
Immagine in falsi colori ottenuta dal telescopio spaziale JWST, che mostra una piccola frazione del campo GOODS-North. La galassia evidenziata nel riquadro ospita un antichissimo buco nero supermassiccio ‘dormiente’. Crediti: JADES Collaboration

Un’altra peculiarità di questo buco nero ad alto redshift (ossia collocato nell’universo primordiale) è il suo rapporto con la galassia ospite: la sua massa rappresenta il 40 per cento della massa stellare totale, un valore mille volte superiore a quello dei buchi neri normalmente osservati nell’universo vicino. Alessandro Trinca, ricercatore post-doc oggi in forza all’Università degli studi dell’Insubria ma già post-doc presso l’INAF di Roma per un anno, spiega:

“Questo squilibrio suggerisce che il buco nero abbia avuto una fase di crescita rapidissima, sottraendo gas alla formazione stellare della galassia. Ha rubato tutto il gas che aveva a disposizione prima di diventare dormiente lasciando la componente stellare a bocca asciutta”.

Alessandro Trinca, ricercatore post-doc presso l’Università degli studi dell’Insubria
Alessandro Trinca, ricercatore post-doc presso l’Università degli studi dell’Insubria

Rosa Valiante, ricercatrice dell’INAF di Roma coinvolta nel team internazionale e coautrice dell’articolo, aggiunge:

“Comprendere la natura dei buchi neri è da sempre un argomento che affascina l’immaginario collettivo: sono oggetti apparentemente misteriosi che mettono alla prova ‘famose’ teorie scientifiche come quelle di Einstein e Hawking. La necessità di osservare e capire i buchi neri, da quando si formano a quando diventano massicci fino a miliardi di volte il nostro Sole, spinge non solo la ricerca scientifica a progredire, ma anche l’avanzamento tecnologico”.

Rosa Valiante, ricercatrice presso l’INAF di Roma
Rosa Valiante, ricercatrice presso l’INAF di Roma

I buchi neri supermassicci così antichi, come quello descritto nell’articolo su Nature, rappresentano un mistero in astrofisica. La rapidità con cui questi oggetti sono cresciuti nelle prime fasi della storia dell’Universo sfida i modelli tradizionali, che non sono in grado di spiegare la formazione di buchi neri di tale portata. In condizioni normali, i buchi neri accrescono materia fino a un limite teorico, chiamato “limite di Eddington”, oltre il quale la pressione della radiazione generata dall’accrescimento contrasta ulteriori flussi di materiale verso il buco nero. La scoperta di questo buco nero primordiale supporta l’ipotesi che fasi brevi ma intense di accrescimento dette “super-Eddington” siano essenziali per spiegare l’esistenza di questi “giganti cosmici” nell’universo primordiale. Si tratta di fasi durante le quali i buchi neri riuscirebbero a inglobare materia a un ritmo molto superiore, sfuggendo temporaneamente a questa limitazione, intervallate da periodi di dormienza.

“Se la crescita avvenisse a un ritmo inferiore al limite di Eddington, il buco nero dovrebbe accrescere il gas in modo continuativo nel tempo per sperare di raggiungere la massa osservata. Sarebbe quindi molto improbabile osservarlo in una fase dormiente”, spiega Raffaella Schneider, professoressa del Dipartimento di Fisica della Sapienza.

Raffaella Schneider, professoressa del Dipartimento di Fisica della Sapienza
Raffaella Schneider, professoressa del Dipartimento di Fisica della Sapienza

Gli scienziati ipotizzano che buchi neri simili siano molto più comuni di quanto si pensi, ma oggetti in un tale stato dormiente emettono pochissima luce, il che li rende particolarmente difficili da individuare, persino con strumenti estremamente avanzati come il telescopio spaziale Webb. E allora come scovarli? Sebbene non possano essere osservati direttamente, la loro presenza viene svelata dal bagliore di un disco di accrescimento che si forma intorno a loro. Con il JWST, telescopio delle agenzie spaziali americana (NASA), europea (ESA) e canadese (CSA) progettato per osservare oggetti estremamente poco luminosi e distanti, sarà possibile esplorare nuove frontiere nello studio delle prime strutture galattiche.

Stefano Carniani, ricercatore della Scuola Normale Superiore di Pisa e membro del team JADES commenta:

“Questa scoperta apre un nuovo capitolo nello studio dei buchi neri distanti. Grazie alle  immagini del James Webb, potremo indagare le proprietà dei buchi neri dormienti, rimasti finora invisibili. Queste osservazioni offrono i pezzi mancanti per completare il puzzle della formazione e dell’evoluzione delle galassie nell’universo primordiale”.

Stefano Carniani, ricercatore presso la Scuola Normale Superiore di Pisa
Stefano Carniani, ricercatore presso la Scuola Normale Superiore di Pisa

La scoperta rappresenta solo l’inizio di una nuova fase di indagine. Il JWST sarà ora utilizzato per individuare altri buchi neri dormienti simili, contribuendo a svelare nuovi misteri sull’evoluzione delle strutture cosmiche nell’universo primordiale.Le osservazioni utilizzate in questo lavoro sono state ottenute nell’ambito della collaborazione JADES tra i team di sviluppo degli strumenti Near-Infrared Camera (NIRCam) e Near-Infrared Spectrograph (NIRSpec), con un contributo anche dal team statunitense del Mid-Infrared Instrument (MIRI).

JWST buco nero dormiente GN-1001830 Un’immagine in tre colori del nucleo galattico attivo e della galassia ospite JADES GN 1146115. L’immagine è stata creata con diversi filtri (rosso F444W, verde F277W e blu F115W) utilizzando gli strumenti dal James Webb Space Telescope NIRCam e NIRSpec in modalità multi-oggetto, come parte del programma JADES (JWST Advanced Extragalactic Survey). La galassia si trova a un redshift di 6.68, che corrisponde a un’epoca di meno di 800 milioni di anni dopo il Big Bang. Crediti: I. Juodzbalis et al. / Nature (2024)
Un’immagine in tre colori del nucleo galattico attivo e della galassia ospite JADES GN 1146115. L’immagine è stata creata con diversi filtri (rosso F444W, verde F277W e blu F115W) utilizzando gli strumenti dal James Webb Space Telescope NIRCam e NIRSpec in modalità multi-oggetto, come parte del programma JADES (JWST Advanced Extragalactic Survey). La galassia si trova a un redshift di 6.68, che corrisponde a un’epoca di meno di 800 milioni di anni dopo il Big Bang. Crediti: I. Juodzbalis et al. / Nature (2024)

 

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “A dormant, overmassive black hole in the early Universe”, di Ignas Juodžbalis, Roberto Maiolino, William M. Baker, Sandro Tacchella, Jan Scholtz, Francesco D’Eugenio, Raffaella Schneider, Alessandro Trinca, Rosa Valiante, Christa DeCoursey, Mirko Curti, Stefano Carniani, Jacopo Chevallard, Anna de Graaff, Santiago Arribas, Jake S. Bennett, Martin A. Bourne, Andrew J. Bunker, Stephane Charlot, Brian Jiang, Sophie Koudmani, Michele Perna, Brant Robertson, Debora Sijacki, Hannah Ubler, Christina C. Williams, Chris Willott, Joris Witstok, è stato pubblicato sulla rivista Nature.

Testo e immagini dagli Uffici Stampa INAF, Scuola Normale Superiore Pisa, Ufficio Stampa e Comunicazione Sapienza Università di Roma

LUCE SUI TITANI DELL’ALBA COSMICA: I PRIMI QUASAR SFIDANO I LIMITI DELLA FISICA PER CRESCERE
Scoperte nuove evidenze che spiegano come si siano formati i buchi neri supermassicci nel primo miliardo di anni di vita dell’Universo. Lo studio, condotto dai ricercatori dell’INAF, analizza 21 quasar distanti e rivela che questi oggetti si trovano in una fase di accrescimento super veloce, offrendo preziose informazioni sulla loro formazione ed evoluzione, in parallelo con quella delle galassie ospitanti.

In un articolo pubblicato oggi sulla rivista Astronomy & Astrophysics emergono nuove indicazioni che suggeriscono come i buchi neri supermassicci, con masse pari ad alcuni miliardi di volte quella del nostro Sole, si siano formati così rapidamente in meno di un miliardo di anni dopo il Big Bang. Lo studio, guidato dai ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), analizza un campione di 21 quasar, tra i più distanti scoperti finora, osservati nei raggi X dai telescopi spaziali XMM-Newton e Chandra. I risultati suggeriscono che i buchi neri supermassicci al centro di questi titanici quasar, i primi a essersi formati durante l’alba cosmica, potrebbero aver raggiunto le loro straordinarie masse grazie a un accrescimento molto rapido e intenso, fornendo così una spiegazione plausibile alla loro esistenza nelle prime fasi dell’Universo.

I quasar sono galassie attive, alimentate da buchi neri supermassicci al loro centro (chiamati nuclei galattici attivi), che emettono enormi quantità di energia mentre attraggono materia. Sono estremamente luminosi e lontani da noi. Nello specifico, i quasar esaminati in questo studio sono tra gli oggetti più distanti mai osservati e risalgono a un’epoca in cui l’Universo aveva meno di un miliardo di anni.

In questo lavoro, l’analisi delle emissioni nei raggi X di tali oggetti ha rivelato un comportamento completamente inaspettato dei buchi neri supermassicci al loro centro: è emerso un legame tra la forma dell’emissione in banda X e la velocità dei venti di materia lanciati dai quasar. Questa relazione associa la velocità dei venti, che può raggiungere migliaia di chilometri al secondo, alla temperatura del gas nella corona, la zona che emette raggi X più prossima al buco nero, legata a sua volta ai potenti meccanismi di accrescimento del buco nero stesso. I quasar con emissione X a bassa energia, quindi con una minore temperatura del gas nella corona, mostrano venti più veloci. Ciò è indice di una fase di crescita estremamente rapida che valica un limite fisico di accrescimento di materia denominato limite di Eddington, per questo motivo tale fase viene chiamata ‘super Eddington’. Viceversa, i quasar con emissioni più energetiche nei raggi X tendono a presentare venti più lenti.

“Il nostro lavoro suggerisce che i buchi neri supermassicci al centro dei primi quasar che si sono formati nel primo miliardo di anni di vita dell’Universo possano effettivamente aver aumentato la loro massa molto velocemente, sfidando i limiti della fisica”, afferma Alessia Tortosa, prima autrice del lavoro e ricercatrice presso l’INAF di Roma. “La scoperta di questo legame tra emissione X e venti è cruciale per comprendere come buchi neri così grandi si siano formati in così poco tempo, offrendo in tal modo un’indicazione concreta per risolvere uno dei più grandi misteri dell’astrofisica moderna”.

Il risultato è stato raggiunto soprattutto grazie all’analisi di dati raccolti con il telescopio spaziale XMM-Newton dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) che ha permesso di osservare i quasar per circa 700 ore, fornendo dati senza precedenti sulla loro natura energetica. La maggior parte dei dati, raccolti tra il 2021 e 2023 nell’ambito del Multi-Year XMM-Newton Heritage Programme, sotto la direzione di Luca Zappacosta, ricercatore dell’INAF di Roma, fa parte del progetto HYPERION, che si propone di studiare i quasar iperluminosi all’alba cosmica dell’Universo. L’estesa campagna di osservazioni è stata guidata da un team di scienziati italiani e ha ricevuto il sostegno cruciale dell’INAF, che ha finanziato il programma, sostenendo così una ricerca di avanguardia sulle dinamiche evolutive delle prime strutture dell’Universo.

“Per il programma HYPERION abbiamo puntato su due fattori chiave: da una parte l’accurata scelta dei quasar da osservare, selezionando i titani, cioè quelli che avevano accumulato la maggior massa possibile, e dall’altra lo studio approfondito delle loro proprietà nei raggi X, mai tentato finora su così tanti oggetti all’alba cosmica”, sostiene Zappacosta. “Direi proprio che abbiamo fatto bingo! I risultati che stiamo ottenendo sono davvero inaspettati e puntano tutti su un meccanismo di crescita dei buchi neri di tipo super Eddington”.

Questo studio fornisce indicazioni importanti per le future missioni in banda X, come ATHENA (ESA), AXIS e Lynx (NASA), il cui lancio è previsto tra il 2030 e il 2040. Infatti, i risultati ottenuti saranno utili per il perfezionamento degli strumenti di osservazione di nuova generazione e per la definizione di migliori strategie di indagine dei buchi neri e dei nuclei galattici nei raggi X a epoche cosmiche più remote, elementi essenziali per comprendere la formazione delle prime strutture galattiche nell’Universo primordiale.

Rappresentazione artistica generata tramite intelligenza artificiale, basata su un’immagine NASA (https://photojournal.jpl.nasa.gov/catalog/PIA16695), che mostra un buco nero supermassiccio in accrescimento, circondato da gas che spiraleggiano verso l'orizzonte degli eventi e emettono potenti venti di materia. Crediti: Emanuela Tortosa
Rappresentazione artistica generata tramite intelligenza artificiale, basata su un’immagine NASA (https://photojournal.jpl.nasa.gov/catalog/PIA16695), che mostra un buco nero supermassiccio in accrescimento, circondato da gas che spiraleggiano verso l’orizzonte degli eventi e emettono potenti venti di materia. Crediti: Emanuela Tortosa

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “HYPERION. Shedding light on the first luminous quasars: A correlation between UV disc winds and X-ray continuum”, di Tortosa A. et al. 2024, è stato pubblicato online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

AT 2021hdr, NUBE DI GAS DISTRUTTA DA UNA COPPIA DI BUCHI NERI SUPERMASSICCI AFFAMATI

Caotici e voraci, caratteristiche che potrebbero descrivere perfettamente due buchi neri mostruosi scoperti con l’Osservatorio Neil Gehrels Swift della NASA, satellite con una importante partecipazione italiana dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). Un gruppo di ricerca ha infatti rilevato, pubblicando i risultati oggi sulla rivista Astronomy and Astrophysics, per la prima volta un evento transiente di distruzione mareale in cui una coppia di buchi neri supermassivi sta interagendo con una nube di gas nel centro di una galassia distante. Il segnale di questo fenomeno, noto come AT 2021hdr, si ripete periodicamente, offrendo agli astronomi un’opportunità unica di studiare il comportamento di questi oggetti cosmici estremi. Tra gli enti di ricerca coinvolti nello studio c’è anche l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

“È un evento molto strano, chiamato AT 2021hdr, che si ripete ogni pochi mesi”, spiega Lorena Hernández-García, ricercatrice presso il Millennium Institute of Astrophysics e il Millennium Nucleus for Transversal Research and Technology to explore Supermassive Black Holes, prima autrice dello studio e leader del team di ricerca. “Crediamo che una nube di gas abbia inghiottito i buchi neri; mentre orbitano l’uno attorno all’altro, i buchi neri interagiscono con la nube, perturbando e consumando il suo gas. Questo produce oscillazioni che si osservano nella luce del sistema”.

AT 2021hdr è stato scoperto grazie all’ALeRCE broker e osservato per la prima volta nel 2021 con lo ZTF (Zwicky Transient Facility) presso l’Osservatorio Palomar in California.

Rappresentazione artistica in cui si vede una coppia di buchi neri supermassivi che vortica in una nube di gas. L’evento si chiama AT 2021hdr, un brillamento ricorrente studiato dal Neil Gehrels Swift Observatory della NASA e dal ZTF Transient Facility presso l'Osservatorio Palomar in California. Crediti: NASA/Aurore Simonnet (Sonoma State University)
Rappresentazione artistica in cui si vede una coppia di buchi neri supermassivi che vortica in una nube di gas. L’evento si chiama AT 2021hdr, un brillamento ricorrente studiato dal Neil Gehrels Swift Observatory della NASA e dal ZTF Transient Facility presso l’Osservatorio Palomar in California. Crediti: NASA/Aurore Simonnet (Sonoma State University)

Cosa provoca questo fenomeno? Dopo aver esaminato diversi modelli per spiegare ciò che vedevano nei dati, i ricercatori hanno dapprima considerato l’ipotesi di un evento di distruzione mareale (in inglese tidal disruption event), vale a dire la distruzione di una stella che si era avvicinata troppo a uno dei buchi neri, per poi convergere su un’altra possibilità: la distruzione mareale di una nube di gas, più grande del binario stesso. Analizzando i dati raccolti, la dinamica è apparsa subito chiara: quando la nube si è scontrata con i due buchi neri, la loro forza di attrazione gravitazionale l’ha fatta a pezzi, formando filamenti attorno alla coppia. La nube si è poi riscaldata per attrito, il gas è diventato particolarmente denso e caldo vicino ai buchi neri, mentre la complessa interazione di forze ha fatto sì che parte del gas venisse espulso dal sistema a ogni rotazione.

ZTF ha rilevato esplosioni da AT 2021hdr ogni 60-90 giorni dal primo brillamento. Il gruppo di Hernández-García ha osservato la sorgente con Swift da novembre 2022. Il satellite americano Swift li ha aiutati a determinare che la coppia di buchi neri produce oscillazioni nella luce ultravioletta e nei raggi X simultaneamente a quelle viste nella luce visibile.

“È la prima volta che si osserva un evento di distruzione mareale di una nube di gas da parte di una coppia di buchi neri supermassivi”, afferma Gabriele Bruni, ricercatore presso l’INAF di Roma. “In particolare, l’oscillazione periodica misurata in banda ottica, ultravioletta, e raggi X ha una durata mai osservata in precedenza per un evento di distruzione mareale. Grazie al monitoraggio costante di ZTF è stato possibile scoprire questo peculiare sistema, e avviare osservazioni in diverse bande. La survey dello ZTF infatti copre il cielo intero ogni 3 giorni, permettendo per la prima volta di scoprire un grande numero di questi fenomeni astrofisici transitori”.

“I fenomeni transienti permettono di studiare ‘in diretta’ l’evoluzione dei sistemi di accrescimento su buchi neri supermassicci, dove la gravità e il campo magnetico si trovano a un regime energetico estremo. Sono quindi laboratori che non riusciremo mai a riprodurre sulla terra, dove testare nuove leggi della fisica”, sostiene Francesca Panessa, ricercatrice presso l’INAF di Roma.

I due buchi neri protagonisti della scoperta si trovano nel centro di una galassia chiamata 2MASX J21240027+3409114, situata a 1 miliardo di anni luce di distanza in direzione della costellazione del Cigno. I due buchi neri sono separati da circa 26 miliardi di chilometri e insieme contengono 40 milioni di volte la massa del Sole. Gli scienziati stimano che i buchi neri completino un’orbita ogni 130 giorni e che si fonderanno tra circa 70 mila anni.

Bruni sottolinea che “finora sono pochi i fenomeni transienti osservati che presentano un oscillazione nella curva di luce come questo”. E conclude: “Le coppie di buchi neri supermassicci sono ancora un fenomeno raramente osservato, e ne vedremo molti di più con la prossima generazione di antenne gravitazionali a bassa frequenza (come LISA – Laser Interferometer Space Antenna). Inoltre, si aspettiamo di scoprire altri casi come questo nei prossimi anni, anche con l’accensione del Vera Rubin Telescope, che sarà in grado di scrutare ancora più a fondo l’universo”.

 Da sinistra: Francesca Panessa (INAF Roma), Lorena Hernández-García (Millennium Institute of Astrophysics), Gabriele Bruni (INAF Roma). Crediti: L. Sidoli / INAF
Da sinistra: Francesca Panessa (INAF Roma), Lorena Hernández-García (Millennium Institute of Astrophysics), Gabriele Bruni (INAF Roma). Crediti: L. Sidoli / INAF

 

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “AT 2021hdr: A candidate tidal disruption of a gas cloud by a binary super massive black hole system”, di L. Hernández-García et al., è stato pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Testo,  video e immagini dall’Ufficio Stampa INAF, Istituto Nazionale di Astrofisica,

VLT E ALMA CATTURANO RAFFICHE DI VENTO RELATIVISTICO DAL QUASAR DELLA GALASSIA J0923+0402, IN PIENA ATTIVITÀ

Un team di ricerca guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dall’Università degli studi di Trieste ha di nuovo imbrigliato i lontanissimi ed energici venti relativistici generati da un quasar lontano ma decisamente attivo (uno dei più luminosi finora scoperti). In uno studio pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal viene riportata la prima osservazione a diverse lunghezze d’onda dell’interazione tra buco nero e il quasar della galassia ospite durante le fasi iniziali dell’Universo, circa 13 miliardi di anni fa. Oltre all’evidenza di una tempesta di gas generata dal buco nero, gli esperti hanno scoperto per la prima volta un alone di gas che si estende ben oltre la galassia, suggerendo la presenza di materiale espulso dalla galassia stessa tramite i venti generati dal buco nero.

alone quasar della galassia J0923+0402 Alone gigante di gas freddo, esteso quasi 50 mila anni luce, rivelato attorno ad una galassia dell’Universo di circa 13 miliardi di anni fa tramite osservazioni multibanda. Questa scoperta fornisce informazioni chiave su come il gas venga espulso o catturato dalle galassie dell’Universo giovane. Crediti: International Gemini Observatory/NOIRLab/NSF/AURA/M. Zamani, J. da Silva & M. Bischetti
Alone gigante di gas freddo, esteso quasi 50 mila anni luce, rivelato attorno ad una galassia dell’Universo di circa 13 miliardi di anni fa tramite osservazioni multibanda. Questa scoperta fornisce informazioni chiave su come il gas venga espulso o catturato dalle galassie dell’Universo giovane. Crediti: International Gemini Observatory/NOIRLab/NSF/AURA/M. Zamani, J. da Silva & M. Bischetti

La galassia protagonista dello studio è J0923+0402, un oggetto lontanissimo da noi, per la precisione a redshift z = 6.632 (ossia la sua radiazione che osserviamo è stata emessa quando l’Universo aveva meno di un miliardo di anni) con al centro un quasar. La luce dei quasar (o quasi-stellar radio source) viene prodotta quando il materiale galattico che circonda il buco nero supermassiccio si raccoglie in un disco di accrescimento. Infatti, nell’avvicinarsi al buco nero per poi esserne inghiottita, la materia si scalda emettendo grandi quantità di radiazione brillante nella luce visibile e ultravioletta.

“L’utilizzo congiunto di osservazioni multibanda ha permesso di studiare, in un range di scale spaziali molto ampio e dalle regioni più nucleari fino al mezzo circumgalatico, il quasar più lontano con misura di vento nucleare e l’alone di gas più esteso rilevato in epoche remote (circa 50 mila anni luce)”, spiega Manuela Bischetti, prima autrice dello studio e ricercatrice presso l’INAF e l’Università degli studi di Trieste.

I dati descritti nell’articolo sono frutto della collaborazione di gruppi di ricerca che lavorano su frequenze diverse dello spettro elettromagnetico. In primis lo spettrografo X-Shooter, installato sul Very Large Telescope (VLT) dell’ESO, ha captato raffiche di materia, in gergo BAL winds (dall’inglese venti con righe di assorbimento larghe o broad absorption line), in grado di raggiungere velocità relativistiche fino a decine di migliaia di chilometri al secondo, misurandone e calcolandone le caratteristiche. Le potenti antenne cilene di ALMA (l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array sempre dell’ESO), ricevendo frequenze dai 242 ai 257 GHz provenienti dall’alba del Cosmo, sono state attivate per cercare la controparte nel gas freddo dei venti BAL e capire se si estendesse oltre la scala della galassia.

La ricercatrice sottolinea: “I BAL sono venti che si osservano nello spettro ultravioletto del quasar che, data la grande distanza da noi, osserviamo a lunghezze d’onda dell’ottico e vicino infrarosso. Per fare queste osservazioni abbiamo usato lo spettrografo X-Shooter del Very Large Telescope. Avevamo già scoperto il BAL di questo quasar due anni fa. Il problema è che non sapevamo quantificare quanto fosse energetico. Questo vento BAL è un vento di gas caldo (decine di migliaia di gradi) che si muove a decine di migliaia di km/s. Allo stesso tempo le osservazioni in banda millimetrica di ALMA ci hanno permesso di capire cosa stia succedendo nella galassia e attorno a essa andando a vedere cosa succede al gas freddo (qualche centinaio di gradi). Abbiamo trovato che il vento si estende anche sulla scala della galassia (ma ha delle velocità più basse, 500 km/s. Questa è una cosa aspettata, il vento decelera man mano che si espande), il che ci ha fatto pensare che questo mega alone di gas sia stato creato dal materiale che i venti hanno espulso dalla galassia”.

La posizione della sorgente energetica è stata poi “immortalata” dapprima dalla Hyper Suprime-Cam (HSC), una gigantesca fotocamera installata sul telescopio Subaru e sviluppata dall’Osservatorio Astronomico Nazionale del Giappone (National Astronomical Observatory of Japan – NAOJ), e – con una misura molto più accurata – dalla NIRCam, una fotocamera a raggi infrarossi installata sul telescopio spaziale James Webb (JWST delle agenzie spaziali NASA, ESA e CSA).

“Questo quasar verrà osservato nuovamente dal JWST in futuro per studiare meglio sia il vento che l’alone”, annuncia Bischetti.

La ricercatrice prosegue spiegando il perché di questa survey: “Ci siamo chiesti se l’attività del buco nero potesse avere un impatto sulle fasi iniziali di evoluzione delle galassie, e tramite quali meccanismi questo avvenga. Vincente è stata la combinazione di dati multibanda che vanno dall’ottico e vicino infrarosso – per misurare le proprietà del buco nero, e cosa avviene nel nucleo della galassia – fino alle osservazioni in banda millimetrica – per studiare cosa avviene all’interno e attorno alla galassia”. Le misure effettuate “sono di routine nell’Universo locale, ma questi risultati non erano mai stati ottenuti prima a redshift z>6”, aggiunge.

“Il nostro studio ci aiuta a capire come il gas venga espulso o catturato dalle galassie dell’Universo giovane e come i buchi neri crescono e possono avere un impatto sull’evoluzione delle galassie. Sappiamo che il fato delle galassie come la Via Lattea è strettamente legato a quello dei buchi neri, poiché questi possono generare tempeste galattiche in grado di spegnere la formazione di nuove stelle. Studiare le epoche primordiali ci permette di capire le condizioni iniziali dell’Universo che vediamo oggi”, conclude Bischetti.


 

Per altre informazioni:

L’articolo “Multi-phase black-hole feedback and a bright [CII] halo in a Lo-BAL quasar at z∼6.6”, di Manuela Bischetti, Hyunseop Choi, Fabrizio Fiore, Chiara Feruglio, Stefano Carniani, Valentina D’Odorico, Eduardo Bañados, Huanqing Chen, Roberto Decarli, Simona Gallerani, Julie Hlavacek-Larrondo, Samuel Lai, Karen M. Leighly, Chiara Mazzucchelli, Laurence Perreault-Levasseur, Roberta Tripodi, Fabian Walter, Feige Wang, Jinyi Yang, Maria Vittoria Zanchettin, Yongda Zhu, è stato pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal.

 

 

Testo e immagine dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).