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I fossili raccontano la fine dell’era glaciale del tardo Paleozoico, 294 milioni di anni fa

Un team internazionale di scienziati di cui fanno parte l’Università degli Studi di Milano e l’Università Sapienza di Roma, analizzando fossili di brachiopodi ha dimostrato come nel Paleozoico l’incremento di anidride carbonica (CO2), dovuto a un’intensa attività vulcanica, sia risultato concomitante alla riduzione dei ghiacciai e a un incremento della temperatura superficiale media degli oceani fino a 4 gradi centigradi. Questo studio pubblicato su Nature Geoscience ci può aiutare a comprendere meglio i cambiamenti climatici attualmente in atto e le loro conseguenze.

1. Ricostruzione artistica della deglaciazione avvenuta nel Permiano Inferiore causata da un rapido incremento della CO2, avvenuta circa 294 milioni di anni fa (realizzato da Dawid Adam Iurino)
1. Ricostruzione artistica della deglaciazione avvenuta nel Permiano Inferiore causata da un rapido incremento della CO2, avvenuta circa 294 milioni di anni fa (realizzato da Dawid Adam Iurino)

Studiare il riscaldamento globale del passato per capire i cambiamenti climatici del presente. Durante la sua lunga storia, la Terra ha sperimentato condizioni climatiche molto diverse, alternando fasi glaciali a periodi di riscaldamento globale che hanno plasmato il pianeta e influenzato l’evoluzione degli organismi. Ancor prima della comparsa dei dinosauri, durante il tardo Paleozoico (circa 300 milioni di anni fa) ebbe luogo una delle glaciazioni più estese, terminata con una fase di riscaldamento che portò alla scomparsa quasi completa dei ghiacciai e delle calotte polari con importanti conseguenze sulla biodiversità.

2. Variazioni della concentrazione di CO2 in atmosfera prima, durante e dopo la deglaciazione di fine Paleozoico
2. Variazioni della concentrazione di CO2 in atmosfera prima, durante e dopo la deglaciazione di fine Paleozoico

Un team internazionale di scienziati, tra cui ricercatori dell’Università Statale di Milano, dell’Università la Sapienza di Roma e dell’Università di St. Andrews in Scozia, ha preso in esame la glaciazione del tardo Paleozoico e il suo declino, seguito da un considerevole aumento delle temperature, per comprendere meglio l’attuale emergenza climatica.

I risultati di questo studio, pubblicati sulla rivista internazionale Nature Geoscience, ricostruiscono per la prima volta i livelli atmosferici di CO2 lungo un arco temporale di 80 milioni di anni.

L’atmosfera del passato viene spesso studiata attraverso l’analisi di piccole bolle d’aria inglobate nelle calotte polari, grazie alle quali siamo capaci di ricostruire con precisione le variazioni climatiche fino a circa 800 mila anni fa. Ma la sfida affrontata da questo studio è stata quella di sviluppare metodologie in grado di risalire a un intervallo compreso tra 340 e 260 milioni di anni fa. Sono stati così presi in oggetto i fossili brachiopodi, invertebrati marini con una conchiglia costituita da carbonato di calcio, molto abbondanti durante il Paleozoico e tuttora rappresentati da alcune specie viventi. Dalle analisi è emerso come i livelli di CO2 fossero intimamente connessi all’evoluzione della glaciazione e alla sua fine. I ricercatori hanno infatti misurato bassi livelli di anidride carbonica concomitanti alla formazione di estese calotte polari. Viceversa, l’incremento di CO2, che fu il prodotto di un’intensa attività vulcanica, è risultato contemporaneo a una riduzione globale dei ghiacciai e a un incremento della temperatura superficiale media degli oceani fino a 4 gradi centigradi. E oggi, proprio come è avvenuto 300 milioni di anni fa, il riscaldamento dell’atmosfera, causato dall’aumento della presenza di CO2 e di gas metano, ha innescato una evidente riduzione dei ghiacciai e delle calotte polari.

“I fossili e le caratteristiche geochimiche dei loro resti sono una preziosa fonte di informazioni, che ci permette di ricostruire il clima e gli ambienti in cui questi organismi sono vissuti, anche nel tempo profondo, e confrontare questi dati con i cambiamenti attualmente in atto” afferma Lucia Angiolini, docente del Dipartimento di Scienze della Terra Ardito Desio dell’Università degli Studi di Milano.

3. La prof. Lucia Angiolini osserva e campiona materiale fossile da alcuni affioramenti rocciosi del Carbonifero in Scozia
3. La prof. Lucia Angiolini osserva e campiona materiale fossile da alcuni affioramenti rocciosi del Carbonifero in Scozia

“Mentre l’organismo cresce, la sua conchiglia si espande ed incorpora numerosi elementi e composti chimici che vanno a costituire una sorta di archivio per tutto il suo ciclo vitale. Infatti è noto come le conchiglie siano legate alla composizione dell’acqua marina e alla variazione di molteplici parametri tra cui la temperatura e l’acidità (pH)”, sottolinea Claudio Garbelli, docente dell’Università Sapienza di Roma.

“Alcuni elementi presenti nel carbonato di calcio delle conchiglie sono determinati dai valori di pH dell’acqua marina che, a sua volta, dipende dalla quantità di CO2 atmosferica”, aggiunge Hana Jurikova, ricercatrice dell’Università di St. Andrews in Scozia e prima autrice dello studio. “Misurando alcuni degli elementi contenuti nelle conchiglie fossili (quali ad esempio il boro e lo stronzio) e con l’ausilio di sofisticati modelli matematici, siamo stati in grado di ricostruire con una certa precisione la quantità di CO2 presente in atmosfera lungo un arco temporale di 80 milioni di anni, tra 340 e 260 milioni di anni fa”, conclude Jurikova.

Studi come questo, oltre ad evidenziare l’importanza dei fossili come archivi di informazioni utili per comprendere le dinamiche dei cambiamenti climatici e ambientali avvenuti nel passato, rappresentano una fonte di dati indispensabile per sviluppare modelli predittivi dei fenomeni attualmente in atto e del loro impatto sulla biodiversità.

4. Un brachiopode fossile del Permiano, chiamato Pachycyrtella, proveniente dal Permiano inferiore dell’Oman
4. I fossili raccontano la fine dell’era glaciale del tardo Paleozoico: un brachiopode fossile del Permiano, chiamato Pachycyrtella, proveniente dal Permiano inferiore dell’Oman

 

Riferimenti bibliografici:

Jurikova, H., Garbelli, C., Whiteford, R. et al. Rapid rise in atmospheric CO2 marked the end of the Late Palaeozoic Ice Age, Nat. Geosci. (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41561-024-01610-2

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma e dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.

Un paradosso conservazionistico: le specie aliene invasive possono essere a rischio nei loro areali d’origine 

Le specie non autoctone rappresentano una minaccia per la biodiversità, ma 36 di esse sono a loro volta in pericolo di estinzione nelle aree da cui provengono. A rivelarlo uno studio condotto dalla Sapienza e dall’Università di Vienna, pubblicato sulla rivista Conservation Letters.

Le specie aliene invasive sono tra le principali cause della perdita globale di biodiversità, contribuendo al 60% delle estinzioni di specie registrate negli ultimi decenni. In Europa centrale, tra i mammiferi non autoctoni si annoverano il ratto norvegese, il muflone e il visone americano. Uno studio condotto da biologi della Sapienza di Roma e dell’Università di Vienna ha rivelato che alcune di queste specie introdotte dall’uomo sono minacciate di estinzione nei loro areali d’origine. I risultati dello studio sono stati pubblicati nell’ultimo numero della rivista scientifica Conservation Letters.

La crescente globalizzazione ha facilitato la diffusione di numerose specie animali e vegetali in regioni del mondo a cui non appartenevano originariamente. Le specie invasive possono mettere in pericolo quelle autoctone attraverso la competizione per le risorse o la trasmissione di nuove malattie. Tuttavia, alcune di queste specie invasive risultano essere a rischio di estinzione nei loro areali nativi. Questo fenomeno solleva un interessante paradosso per la conservazione: è giusto proteggere queste specie nei loro areali d’origine, nonostante il danno che possono arrecare altrove? Finora non era chiaro quante specie di mammiferi minacciati fossero coinvolte in questo paradosso. Il recente studio ha quantificato il fenomeno, facendo un passo avanti nella comprensione di questa complessa problematica.

Le specie aliene invasive sono tra le principali cause della perdita globale di biodiversità, contribuendo al 60% delle estinzioni di specie registrate negli ultimi decenni. In Europa centrale, tra i mammiferi non autoctoni si annoverano il ratto norvegese, il muflone e il visone americano. Attualmente, l’uomo ha introdotto 230 specie di mammiferi non autoctoni in nuove aree del mondo, dove si sono stabilite in modo permanente.

“Ci siamo chiesti quante di queste specie siano a rischio anche nei loro areali d’origine -, spiega Lisa Tedeschi, autrice principale dello studio, affiliata alla Sapienza di Roma e all’Università di Vienna – Abbiamo scoperto che 36 di queste specie sono minacciate nei loro areali originari, rientrando così nel cosiddetto paradosso della conservazione. Questo numero ci ha sorpreso molto – sottolinea Tedeschi – Inizialmente pensavamo che le specie aliene e invasive fossero comuni anche nei loro areali nativi”.

Un esempio emblematico di mammifero minacciato nel suo areale originario è il cinopiteco (o macaco crestato), la cui popolazione a Sulawesi, in Indonesia, è crollata dell’85% dal 1978. Tuttavia, la specie si è diffusa su altre isole indonesiane, dove si trovano popolazioni non autoctone stabili. Un caso simile è quello del coniglio selvatico, in pericolo di estinzione in Europa, ma con popolazioni introdotte molto numerose in altre parti del mondo, come l’Australia, che superano di gran lunga quelle europee.

La maggior parte delle specie minacciate nel loro areale originario si trova nelle regioni tropicali dell’Asia, dove la distruzione massiccia delle foreste pluviali e la caccia intensiva rappresentano le principali cause del declino.

“La regione del Sud-est asiatico rappresenta l’hotspot globale di rischio di estinzione per i mammiferi – spiega Carlo Rondinini della Sapienza, coordinatore del gruppo di ricerca – le tendenze degli ultimi decenni e le proiezioni per il futuro fanno ritenere che conservare i mammiferi a rischio in questa regione sarà molto complesso. Per questo, le popolazioni aliene di specie minacciate nel loro areale nativo potrebbero in alcuni casi rappresentare una carta in più per evitarne l’estinzione”.

Attualmente, nella valutazione del rischio di estinzione globale non vengono considerate le popolazioni di specie che vivono al di fuori del loro areale nativo. Questo studio, però, ha dimostrato che includere le popolazioni non autoctone potrebbe migliorare la classificazione di rischio per alcune specie.

“Per il 22% delle specie analizzate, il rischio di estinzione globale si ridurrebbe se si tenessero in considerazione anche le popolazioni non autoctone”,

spiega Franz Essl, dell’Università di Vienna e co-coordinatore dello studio. Secondo i ricercatori, questi risultati evidenziano quanto le popolazioni non autoctone possano essere cruciali per la sopravvivenza di specie minacciate, specialmente quando gli habitat d’origine sono fortemente compromessi.

Tuttavia, l’inclusione delle popolazioni non autoctone nella valutazione del rischio presenta anche delle criticità. Ad esempio, potrebbe diminuire l’attenzione verso la protezione delle popolazioni minacciate nel loro areale nativo. Inoltre, le popolazioni non autoctone possono danneggiare altre specie locali, contribuendo a nuovi squilibri ecosistemici.

“La priorità deve rimanere la protezione delle specie nei loro habitat d’origine”, sottolinea Essl. “Tuttavia, è probabile che in futuro vedremo sempre più specie a rischio di estinzione nei loro areali nativi, ma con migliori possibilità di sopravvivenza in nuovi areali. Questo pone la conservazione della biodiversità davanti al complesso compito di bilanciare rischi e opportunità”. Infine, Essl conclude: “Questa dinamica riflette il profondo impatto della globalizzazione sulla distribuzione delle specie”.

 

Riferimenti bibliografici:

Tedeschi L., Lenzner B., Schertler A., Biancolini D., Essl F., Rondinini C. – “Threatened mammals with alien populations: distribution, causes, and conservation” – Conservation Letters (2024) – DOI:  https://doi.org/10.1111/conl.13069

Visone americano (Neogale vison). Foto di Hugo.arg, CC BY-SA 3.0
Un paradosso conservazionistico: le specie aliene invasive possono essere a rischio nei loro areali d’origine. Un visone americano (Neogale vison) in Lituania. Foto di Hugo.arg, CC BY-SA 3.0

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Cambiamento climatico: il ritiro dei ghiacciai indebolisce le interazioni tra piante e impollinatori, la biodiversità, l’ecosistema

Con il ritiro dei ghiacciai le interazioni tra piante e impollinatori diventano più fragili, rischiando di rendere l’intero ecosistema più vulnerabile ai cambiamenti ambientali in atto e meno resiliente.
È il risultato della ricerca di un’equipe internazionale di scienziati coordinato dall’Università Statale di Milano, effettuata nell’area del ghiacciaio del Monte Miné nelle Alpi Svizzere e pubblicata su
Ecography.

Milano, 12 novembre 2024 – I ghiacciai si stanno ritirando, questo ormai è noto. Ma che cosa succede alla terra una volta libera dal ghiaccio? Che tipo di nuovo ecosistema si viene a formare?

Per capire l’impatto del ritiro dei ghiacciai su biodiversità e funzionamento dei sistemi ecologici, un’équipe internazionale di scienziati dell’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con l’Università di Losanna, con l’Università Sapienza di Roma e con l’Università di Modena e Reggio Emilia, ha preso in esame le interazioni tra piante e impollinatori e ha scoperto che il ritiro dei ghiacciai mette a rischio la stabilità delle relazioni tra piante e impollinatori, fondamentali per la biodiversità.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Ecography è stato effettuato nell’area del ghiacciaio del Monte Miné nelle Alpi Svizzere, un luogo in cui i ghiacciai si sono costantemente ritirati a causa dell’aumento delle temperature globali.

Utilizzando una modellazione ecologica avanzata basata sulla teoria delle reti che analizza l’ecosistema sulla base delle interazioni tra molte specie diverse, i ricercatori hanno identificato i meccanismi chiave nell’evoluzione di queste interazioni su un arco temporale di 140 anni. È così emerso che le specie di piante in una prima fase formano connessioni altamente specializzate con i loro impollinatori, creano relazioni di mutua dipendenza e “mutua assistenza”. Ad esempio, piante pioniere come l’epilobio (Epilobium fleischeri) sono risultate avere relazioni forti e uniche con impollinatori specifici, assicurando il successo riproduttivo alla pianta e risorse alimentari agli impollinatori.

Tuttavia, con l’arretramento dei ghiacciai e l’aumento della colonizzazione da parte della foresta, hanno iniziato a dominare piante come il rododendro (Rhododendron ferrugineum), una pianta “super-generalista” che interagisce con una più ampia varietà di impollinatori, indebolendo la solidità della rete complessiva.

Nelle prime fasi del ritiro del ghiacciaio, abbiamo riscontrato che molte specie vegetali formavano interazioni specializzate con gli impollinatori, creando una rete molto fitta e robusta. Ma con l’avanzare del ritiro e la maturazione dell’ecosistema, in particolare con l’arrivo della foresta e la scomparsa delle praterie, abbiamo assistito a uno spostamento verso specie più generaliste. Se da un lato queste specie generaliste possono adattarsi a una gamma più ampia di partner, dall’altro formano con loro connessioni più deboli, che potrebbero rendere l’intero ecosistema più vulnerabile ad ulteriori cambiamenti ambientali” spiega Gianalberto Losapio, ricercatore del Dipartimento di Bioscienze dell’Università Statale di Milano e coordinatore della ricerca.

Il team ha utilizzato un approccio interdisciplinare unico, concentrandosi sui “motivi di rete”, piccoli schemi di interazione all’interno di una rete più ampia. Si è visto così che con l’arretramento dei ghiacciai e il cambiamento degli ecosistemi, questi piccoli motivi passano dall’essere altamente connessi a diventare più frammentati, il che è un indicatore critico di ridotta resilienza.

Questo studio è stato condotto sulla fronte di un ghiacciaio subalpino, ma il ritiro dei ghiacciai avviene in tutto il mondo. Per comprendere appieno gli impatti globali, abbiamo bisogno di studi simili in altre regioni” conclude Losapio.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.

Progetto Encompass: Italia e Cina insieme per studiare la contaminazione da microplastiche nei terreni agricoli e nelle acque sotterranee

Il progetto Encompass è coordinato dall’Università di Pisa e finanziato Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, la sperimentazione sul campo in provincia di Pisa

La contaminazione da microplastiche nei terreni agricoli e nelle acque sotterranee è un problema nuovo e relativamente poco studiato, con effetti ancora non del tutto chiari dal punto di vista dell’ambiente e della salute. Definire nuovi protocolli per affrontare il fenomeno è la sfida del progetto Encompass che unisce nell’impegno Italia e Cina con l’Università di Pisa come capofila e fra i partner l’Università tecnologica di Shenzhen e l’Istituto Orientale di Tecnologia (Eastern Institute of Technology) di Ningbo. La sperimentazione sul campo avverrà sia in Cina che in Italia, precisamente nella zona della bonifica di Massaciuccoli, nel comune di Vecchiano (Pisa).

“La contaminazione da microplastiche nei suoli agricoli ha potenzialmente conseguenze molto serie per le produzioni alimentari, la biodiversità e il benessere degli ecosistemi terrestri in generale – spiega il professore Valter Castelvetro del dipartimento di Chimica e Chimica Industriale dell’Ateneo pisano – A tutt’oggi non esistono protocolli analitici validati e condivisi per gestire il fenomeno, anche a perché è molto difficile isolare le microplastiche dai suoli”.

L’obiettivo di Encompass è dunque condividere e sviluppare nuovi protocolli analitici per determinare quantità e tipologia di microplastica presente nei suoli e nelle acque sotterranee. Le metodologie riguarderanno sia la quantificazione numerica, cioè il numero e la natura delle particelle polimeriche, sia la massa per tipologia di polimero, calcolata quest’ultima secondo una procedura ideata e validata all’Università di Pisa. L’ambizione è inoltre di mettere a punto modelli su scala per studiare in laboratorio il processo di trasporto delle microplastiche dalla superficie alle falde acquifere attraverso le diverse tipologie di suolo.

L’impatto che deriva dal crescente inquinamento da materie plastiche, e conseguentemente da microplastiche, sulla produttività dei suoli agricoli, sul benessere degli ecosistemi naturali e sulla biodiversità potrebbe essere molto grave nei prossimi anni, anche in considerazione dei possibili effetti sinergici con le alterazioni climatiche, lo sfruttamento intensivo dei suoli e la depauperazione delle importantissime riserve di acqua sotterranea – sottolinea Castelvestro – Conoscere il problema è un passo fondamentale per poterne comprendere le conseguenze e studiare possibili soluzioni o mitigarne gli effetti”.

Progetto Encompass:Italia e Cina insieme per studiare la contaminazione da microplastiche nei terreni agricoli e nelle acque sotterranee. Nella gallery, le immagini del primo campionamento nella zona della bonifica di Massaciuccoli, nel comune di Vecchiano (Pisa)

Encompass è stato finanziato fra i Progetti di Grande Rilevanza del Programma esecutivo di Cooperazione scientifica e tecnologica bilaterale tra Italia (MAECI, Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale) e Cina (MOST, Ministry of Science and Technology).

Per l’Università di Pisa, il progetto è gestito tramite il Centro per l’Integrazione della Strumentazione scientifica (CISUP) e vede coinvolti ricercatori del Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale e del Dipartimento di Scienze della Terra. Collaborano a Encompass: Valter Castelvetro, Andrea Corti, Stefania Giannarelli, Antonella Manariti, Jacopo La Nasa, Laura Pacilio, Riccardo Gherardini, Alessio Monnanni, Riccardo Petrini, Roberto Giannecchini, Viviana Re e Stefano Viaroli.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa

L’oro verde delle Alpi: il progetto NETTLE (ri)scopre le piante alpine e i loro benefici

Il progetto transfrontaliero NETTLE, coordinato dalla Libera Università di Bolzano, mira a valorizzare le piante alpine caratterizzando le proprietà funzionali dei loro estratti. Un futuro promettente con applicazioni in campo farmaceutico ed alimentare.

progetto NETTLE alcune delle piante analizzate
alcune delle piante analizzate

Le piante officinali sono note ed utilizzate sin dall’antichità per le loro proprietà aromatiche e curative. La saggezza del detto di Ippocrate “Fa che il cibo sia la tua medicina e la medicina sia il tuo cibo” rappresenta bene il rinato interesse verso le piante medicinali che è alla base di un sempre maggiore numero di studi che si occupano delle loro funzioni curative. A questa filosofia si è ispirato anche il progetto NETTLE, finanziato dal programma europeo Interreg Italia-Austria, che mira a scoprire e far riscoprire il valore delle piante alpine ai cittadini, alle imprese e agli istituti di ricerca.

NETTLE nasce da una collaborazione tra la Libera Università di Bolzano, l’Università di Udine e l’Università di Salisburgo. I tre atenei collaborano, condividendo competenze ed esperienze già a partire dal campo dove vengono raccolte le piante di interesse. La meta è rappresentata dalla creazione di un database accessibile al pubblico che permetta a tutte le persone o istituzioni pubbliche e private interessate di conoscere le proprietà delle piante alpine. Un esempio è l’achillea millefoglie, una tra le specie più presenti nei prati delle nostre montagne che però non è molto conosciuta. Questa pianta presenta una lunghissima lista di proprietà medicinali: nelle valli è infatti usata non solo come calmante e antidepressivo, ma anche per disintossicare il corpo, per alleviare i dolori e come condimento nelle pietanze. Più conosciuta è invece l’ortica, ricca di ferro e potente diuretico, utilizzata per rafforzare il sistema immunitario, ma ottima soprattutto in piatti tipici dell’Alto Adige e dell’Austria come canederli e spätzle.

“L’intento del progetto NETTLE è quello di trasferire al tessuto produttivo, alla cittadinanza e agli enti di ricerca della regioni coinvolte le competenze necessarie per immettere sul mercato ed utilizzare gli estratti naturali ottenuti dalle piante alpine”,

afferma Giovanna Ferrentino, professoressa di Scienze e tecnologie alimentari alla Facoltà di Scienze agrarie, ambientali e alimentari di unibz e responsabile del progetto.

Giovanna Ferrentino
Giovanna Ferrentino

Le fasi del progetto

NETTLE, iniziato a febbraio di quest’anno, si divide in più fasi. I ricercatori e le ricercatrici delle Università di Bolzano e di Salisburgo si occuperanno della raccolta di oltre 30 piante alpine della regione transfrontaliera coordinati dal prof. Stefan Zerbe, botanico della Facoltà di Scienze agrarie, ambientali e alimentari di unibz. La raccolta in Alto Adige si svolgerà sui prati del maso “Il Castellino delle Erbe” a Coldrano, che da anni si impegna nella coltivazione biologica di erbe officinali ed aromatiche. Una volta ottenute ed essiccate le piante, si procederà all’estrazione dei composti di interesse. In questa fase i ricercatori confronteranno l’efficacia delle tecniche tradizionali, quali l’estrazione con solventi organici, con quella di metodi più innovativi e sostenibili dal punto di vista ambientale, come l’uso di anidride carbonica supercritica, ultrasuoni e campi elettrici pulsati. Gli estratti ottenuti verranno poi testati su linee cellulari umane per valutare le loro proprietà antiossidanti, antimicrobiche, antiinfiammatorie e cicatrizzanti. Oltre alle proprietà farmaceutiche, verrà valutata anche l’attività antiossidante degli estratti negli alimenti.

“Questi estratti potrebbero fungere da conservanti naturali in quanto il loro utilizzo in oli vegetali, come ad esempio quelli di girasole e lino, o la loro applicazione in grassi di origine animale quali lo speck potrebbe favorire un rallentamento della loro ossidazione, evitandone quindi l’irrancidimento”, conclude Ferrentino.

Il progetto NETTLE rappresenta quindi un’importante punto di incontro tra la crescita delle aziende locali e la conservazione della biodiversità dell’area transalpina e sottolinea l’importante ruolo della natura nell’economia e nella società.

Il Castellino delle Erbe
Il Castellino delle Erbe

Testo e foto dall’Ufficio Stampa e organizzazione eventi Libera Università di Bolzano

Resistenza ai pesticidi dei roditori delle isole italiane: un fenomeno diffuso e dannoso per l’ambiente e la biodiversità

Un nuovo studio coordinato dalla Sapienza, in collaborazione con l’Istituto di ricerca sugli ecosistemi terrestri del CNR, ha indagato la resistenza genetica ai rodenticidi nei topi domestici in 11 piccole isole italiane. I risultati del lavoro, che sensibilizzano su un uso più consapevole di tali sostanze, sono stati pubblicati sulla rivista Science of the Total Environment.

La presenza di roditori invasivi come ratti o topi sulle isole del Mediterraneo, ricche di biodiversità e con una cospicua presenza umana, rappresenta una grave minaccia per questi delicati ecosistemi, oltre a causare gravi danni alle attività umane.

In questi ambienti il controllo dei roditori avviene frequentemente attraverso l’impiego di sostanze rodenticide basate su principi attivi anticoagulanti e che , se usate senza seguire le opportune linee guida, possono avere gravi impatti ambientali per il possibile avvelenamento diretto o secondario di altre specie. Inoltre, esiste anche la possibilità che si sviluppi una resistenza genetica a tali sostanze. Questo rende difficile il controllo delle popolazioni di roditori e aumenta conseguentemente la quantità di rodenticidi rilasciati nell’ambiente.

In un nuovo studio pubblicato sulla rivista Science of the Total Environment, frutto della collaborazione fra il Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza e l’Istituto di ricerca sugli ecosistemi terrestri del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), è stata indagato il fenomeno della resistenza genetica ai rodenticidi nelle isole italiane confermando una presenza piuttosto diffusa di topi resistenti su 7 delle 11 isole studiate.

“In questo lavoro, che rappresenta la prima indagine sulla resistenza ai rodenticidi anticoagulanti effettuata su più isole del Mediterraneo – spiega Francesco Gallozzi della Sapienza – abbiamo analizzato particolari mutazioni del gene VKORC1, coinvolto nei fenomeni di resistenza, nei topi domestici (Mus domesticus) e identificato 6 nuove mutazioni mai trovate nel topo domestico e 4 nuove mutazioni mai identificate nei roditori”.

Per il reperimento dei campioni dalle diverse isole è stata fondamentale la collaborazione tra più enti, tra i quali NEMO srl, che si occupa direttamente della gestione dei roditori sulle isole italiane ed è stata protagonista delle attività di eradicazione di roditori invasivi in molte di esse.

Lo studio, effettuato nell’ambito delle attività del National Biodiversity Future Center e in particolare dello Spoke 5 sulla biodiversità urbana a cui partecipa la Sapienza, ha portato alla luce la necessità di un utilizzo più consapevole dei rodenticidi per permettere una gestione efficace dei roditori invasivi e per minimizzare gli impatti di tali sostanze sulle specie non-target.

“In presenza di resistenza ai rodenticidi vanno considerati metodi alternativi per il loro controllo – commenta Riccardo Castiglia, coordinatore dello studio. “Altrimenti, il rischio è quello di arrecare un danno irreparabile ad ambiente e biodiversità”.

Topo dall'isola di Ventotene. Crediti per la foto: Davide Giuliani
Resistenza ai pesticidi dei roditori delle isole italiane: un fenomeno diffuso e dannoso per l’ambiente e la biodiversità. Topo dall’isola di Ventotene. Crediti per la foto: Davide Giuliani

Riferimenti bibliografici:

A survey of VKORC1 missense mutations in eleven Italian islands reveals widespread rodenticide resistance in house mice – Francesco Gallozzi, Lorenzo Attili, Paolo Colangelo, Davide Giuliani, Dario Capizzi, Paolo Sposimo, Filippo Dell’Agnello, Rita Lorenzini, Emanuela Solano, Riccardo Castiglia – Science of The Total Environment 2024, DOI: https://doi.org/10.1016/j.scitotenv.2024.176090

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Gestione delle foreste e funzionalità degli ecosistemi: il delicato equilibrio tra uomo e natura

Una collaborazione internazionale, a cui partecipa un gruppo di ricercatori della Sapienza, ha pubblicato su Journal of Applied Ecology i risultati di uno studio che indaga i legami tra strategie di gestione delle foreste e caratteristiche funzionali del sottobosco, visto che queste ultime influenzano il grado di resilienza ai cambiamenti. La ricerca è stata resa possibile da un monitoraggio della biodiversità forestale che ha coinvolto 12 paesi in Europa.

La vasta maggioranza delle foreste d’Europa è attualmente utilizzata per la produzione di legname. Le strategie di gestione forestale deputate a questo scopo sono notevolmente varie ed è differente anche l’impatto delle singole metodologie sulla vegetazione del sottobosco e di conseguenza sulla biodiversità forestale, sul ciclo dei nutrienti e sulla capacità di rigenerazione dell’ecosistema.

Nonostante l’importanza delle foreste anche nella lotta al cambiamento climatico, nessuno finora aveva indagato il rapporto esistente tra metodi di gestione delle risorse forestali e ricchezza e resilienza degli ecosistemi. Una collaborazione di 52 scienziati provenienti da 12 paesi europei, tra cui un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Biologia ambientale della Sapienza, ha svolto per la prima volta una ricerca a vasta scala sul tema. I risultati sono stati pubblicati sul Journal of Applied Ecology della British Ecological Society.

In particolare i ricercatori hanno confrontato gli effetti di ciascuna strategia di gestione forestale su tre distinte componenti: diversità funzionale, ridondanza funzionale e dominanza misurate rispetto alle foreste non sfruttate per la produzione di legname.

Il primo indicatore stima la disponibilità di specie diversificate per funzioni ambientali. La presenza di un’elevata diversità funzionale incrementa la probabilità che, in caso di instabilità climatica o eventi catastrofici, alcune specie possano sfruttare a loro vantaggio le nuove condizioni, contribuendo così alla resilienza post-disturbo dell’ecosistema.

Il secondo indicatore si riferisce alla compresenza di specie che svolgono funzioni simili, le quali possano garantire il mantenimento di processi ecosistemici, come la produttività, la cattura del carbonio o il ciclo dei nutrienti dopo la perdita di specie dovuta a forti disturbi o perturbazioni.

Infine, il terzo riguarda la dominanza di una o più specie rispetto alle altre.

I dati necessari per valutare questi effetti sono stati raccolti a livello locale in 2107 punti di campionamento in 146 siti sparsi in tutta Europa, ognuno dei quali è associato ad una specifica strategia di gestione. Per ciascuna unità di campionamento è stata effettuata l’identificazione delle specie e la stima dell’abbondanza di piante vascolari presenti nel sottobosco. In seguito i dati sono stati inseriti su una piattaforma di gestione e armonizzazione dei dati, che ne ha permesso il confronto.

I risultati dimostrano come le differenti metodologie di silvicoltura impattano sul sottobosco e sulle sue caratteristiche. In particolare, se le foreste non gestite presentano sia un sottobosco funzionalmente diversificato che ridondante, gli stessi effetti possono essere ottenuti attraverso strategie di gestione e sfruttamento a bassa intensità.

D’altro canto, lo sfruttamento intensivo è associato a una diminuzione della diversità funzionale parzialmente controbilanciata da un aumento della ridondanza funzionale. Ciò implica che, sebbene la gestione intensiva possa mantenere le funzioni delle foreste in caso di perdita di alcune specie, con questo tipo di gestione viene anche fortemente limitata la gamma di risposte del sottobosco ai cambiamenti ambientali.

Dunque, i diversi regimi gestionali influenzano diversi aspetti delle caratteristiche funzionali del sottobosco e data la complessità delle interazioni tra queste componenti ambientali è impossibile individuare un regime di silvicoltura universalmente consigliabile. Le diverse opzioni dovrebbero essere bilanciate in un paesaggio forestale per sostenere le molteplici funzioni che le società umane richiedono agli ecosistemi forestali.

gestione delle foreste sottobosco ecosistemi
Foto di Kurt Bouda

Riferimenti bibliografici:

Silvicultural regime shapes understory functional structure in European forests – F. Chianucci, F. Napoleone, C. Ricotta, … S. Burrascano – Journal of Applied Ecology https://doi.org/10.1111/1365-2664.14740

Testo e video dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Un futuro incerto per la biodiversità del bacino del Congo

La prima review dedicata agli impatti dei cambiamenti climatici in una delle foreste pluviali più grandi al mondo ha evidenziato le possibili conseguenze negative sulla biodiversità: dall’estinzione delle specie alla diminuzione delle dimensioni degli organismi. I risultati del lavoro, coordinato dal Dipartimento di Biologia e biotecnologie della Sapienza, sono pubblicati sulla rivista Biological Conservation.

Il bacino del Congo, la seconda foresta pluviale continua più grande al mondo, è un centro chiave della biodiversità del pianeta e svolge un ruolo significativo nella mitigazione dei cambiamenti climatici.

Quest’area si trova ad affrontare minacce multiformi, tra cui il cambiamento di destinazione d’uso del territorio, lo sfruttamento delle risorse naturali e i mutamenti climatici.

Un team di ricercatori del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza ha indagato e valutato criticamente lo stato attuale delle conoscenze relative agli impatti dei cambiamenti climatici sulla biodiversità del bacino del Congo, a tutti i suoi livelli organizzativi, utilizzando una metodologia di revisione sistematica della letteratura.

I risultati del lavoro, pubblicato sulla rivista Biological Conservation, hanno evidenziato una traiettoria futura incerta per la biodiversità dell’area, considerando il suo stato poco studiato, l’entità delle incognite e le risposte negative trovate in letteratura.

I ricercatori si sono concentrati principalmente sul cambiamento climatico in quanto minaccia emergente ma poco studiata, potenzialmente in grado di assumere un ruolo primario nel determinare la perdita di biodiversità nella regione: dall’aumento della vulnerabilità delle specie all’estinzione, allo spostamento dell’areale delle specie, fino alla diminuzione delle dimensioni degli organismi.

“Questa sintesi  ci ha permesso di identificare i cluster di conoscenza più importanti nella letteratura scientifica esistente e di delineare un’agenda di ricerca futura– spiega Milena Beekmann della Sapienza, primo nome del lavoro che costituisce una parte della sua tesi di dottorato – A nostra conoscenza, questa è la prima review che si concentra sugli impatti dei cambiamenti climatici nel bacino del Congo”.

“Tuttavia – commenta Carlo Rondinini, tra gli autori dello studio e docente della Sapienza – permangono alti livelli di incertezza, legati ad allarmanti lacune nelle conoscenze, a processi ecologici non documentati e a una mancanza di informazioni”.

il fiume Epulu nella Riserva Faunistica Okapi, Repubblica Democratica del Congo
il fiume Epulu nella Riserva Faunistica Okapi, Repubblica Democratica del Congo. Foto di J. Doremus, United States Agency for International Development – USAID [1], in pubblico dominio

Riferimenti bibliografici: 

Uncertain future for Congo Basin biodiversity: A systematic review of climate change impacts – Milena Beekmann, Sandrine Gallois, Carlo Rondinini – Biological Conservation 2024, DOI: https://doi.org/10.1016/j.biocon.2024.110730

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

DIMINUZIONE DEL GHIACCIO MARINO E BIODIVERSITÀ: Anche l’Università di Padova nel progetto WOBEC. Insieme a undici partner guidati dall’Istituto Alfred Wegener valuterà la biodiversità nel Mare di Weddell in Antartide

Le profondità del Mare di Weddell ospitano diverse comunità biotiche composte da spugne, coralli e innumerevoli altri organismi adattati all’ambiente freddo. Con il progredire dei cambiamenti climatici, questa regione polare potrebbe offrire un rifugio per organismi vegetali e animali che dipendono dal ghiaccio, dal krill alle foche di Weddell. Nell’ambito del nuovo progetto europeo “Weddell Sea Observatory of Biodiversity and Ecosystem Change” (WOBEC) l’Istituto Alfred Wegener, in qualità di coordinatore di un consorzio di undici istituzioni europee e statunitensi, tra le quali il Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova, getterà le basi per osservazioni sistematiche a lungo termine dei potenziali cambiamenti in questo ecosistema unico. Il progetto, che ha ottenuto un finanziamento di circa 1,9 milioni di euro e si baserà sulle più recenti scoperte scientifiche, svilupperà una strategia per monitorare i cambiamenti nel Mare di Weddell, una regione candidata come area marina protetta su proposta dell’UE e di altri Stati. La riunione di avvio del WOBEC si terrà a Bremerhaven dall’11 al 14 giugno.

Il Mare di Weddell è il più grande mare dell’Oceano Meridionale ed è ricchissimo di biodiversità. Qui foche e pinguini imperatore partoriscono i loro piccoli, il krill si nutre di microalghe sotto le banchise attirando pesci, balene e uccelli marini. Sul fondo del mare si riproducono milioni di pesci-ghiaccio (“icefish”), pesci senza emoglobina, circondati da giardini sottomarini di spugne di vetro (“glass sponges”), anemoni e lumache di mare. Alcuni di questi luoghi raggiungono un livello di biodiversità paragonabile a quello delle barriere coralline tropicali.

Chiara Papetti con pesce
Chiara Papetti

Undici istituti di otto Paesi si sono uniti nel progetto WOBEC e nei prossimi tre anni le ricercatrici e i ricercatori partecipanti determineranno lo stato della comunità biotica del Mare di Weddell, stabilendo uno scenario iniziale di riferimento per un monitoraggio a lungo termine dell’ecosistema nell’Oceano Meridionale in trasformazione. WOBEC è uno dei 33 progetti dell’importante programma dell’Unione Europea BiodivMon, sotto l’egida di Biodiversa+, il partenariato europeo per la biodiversità. Il progetto è partito ad aprile 2024 con una riunione di apertura a Tallinn, in Estonia. Ai partner del progetto è stato assegnato un budget di circa 1,9 milioni di euro di sostegno finanziario.

Il team del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova, sostenuto dal Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR) con un contributo di quasi 200 mila euro, è coordinato dalla prof.ssa Chiara Papetti e include la prof.ssa Isabella Moro, il dr. Alessandro Vezzi e i giovani ricercatori dr. Luca Schiavon, Alessia Prestanti e Federica Stranci.

«Ci aspettiamo che i pesci antartici, per i loro adattamenti peculiari all’ambiente polare e per i loro cicli vitali strettamente connessi a quelli degli altri numerosi componenti della comunità marina antartica, possano fungere da indicatori dei cambiamenti nell’abbondanza e distribuzione della biodiversità nel Mare di Weddell» aggiunge Chiara Papetti che, con i suoi collaboratori, si occupa di studiare la connessione tra popolazioni di pesci antartici nell’Oceano Meridionale.

Chiara Papetti progetto WOBEC
Chiara Papetti

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

Progetto “Map the Giants” per preservare i coralli giganti, ultima frontiera per salvare gli oceani

Il progetto “Map the Giants” dell’Università di Milano-Bicocca va in crowdfunding per preservare le colonie di coralli giganti a rischio di estinzione e per valorizzarle come “monumenti marini”.

Milano, 16 maggio 2024 – Hanno le dimensioni di diversi autobus impilati uno sull’altro, ma sono fragilissime: sono le colonie di coralli giganti che popolano alcuni fondali marini, organismi favolosi ma a rischio di estinzione la cui salvaguardia è cruciale per il nostro pianeta. Sono infatti l’equivalente marino delle sequoie, gli alberi più imponenti della Terra e come loro custodiscono informazioni uniche su clima, ambiente e biodiversità. Proprio per salvare queste macchine del tempo naturali, minacciate dai cambiamenti climatici, è nato il progetto “Map the Giants”, che lancia una campagna di crowdfunding per finanziare una spedizione scientifica. L’obiettivo è esplorare gli atolli più remoti delle Maldive che potrebbero ospitare alcuni fra gli esemplari più maestosi di coralli giganti. L’iniziativa fa parte della VI edizione di BiUniCrowd dell’Università di Milano-Bicocca che permette alla comunità universitaria di ottenere sostegno e visibilità dall’esterno.

«Non vogliamo solo trovare i coralli giganti, ma anche mapparli e identificarne le specie, misurarli e stabilirne lo stato di conservazione: alcune colonie di corallo producono ancora cloni di larve che si sono insediate centinaia di anni fa, e potrebbero costituire preziose testimonianze di adattamento, utili per salvare la scogliere coralline del futuro»,

spiega Simone Montano, ricercatore del Dipartimento di Scienze dell’ambiente e della terra (DISAT) e del MaRHE Center dell’Università di Milano-Bicocca e responsabile del progetto.

«Un altro tassello importante è quello di cambiare la prospettiva attraverso la quale si conservano e proteggono i coralli sensibilizzando l’opinione pubblica sul valore inestimabile di questi organismi, veri e propri monumenti marini».

L’Università di Milano-Bicocca dal 2009 ─ grazie al suo centro di ricerca MaRHE – Marine Research and High Education Center sull’isola di Magoodhoo nell’Arcipelago delle Maldive ─ studia lo stato di salute dei coralli: questi ecosistemi marini, pur ricoprendo solo lo 0,1 per cento dei nostri oceani, ospitano più di un quarto di tutte le specie marine conosciute, proteggendo le coste dall’erosione e permettendo la sussistenza di quasi un miliardo di esseri umani. Ecco perché l’ateneo ha deciso di supportare “Map the Giants”. Come? Per sviluppare il progetto è stata avviata una campagna per raccogliere 10.000 euro su Ideaginger.it, la piattaforma di crowdfunding con il tasso di successo più alto in Italia: una volta raggiunto il 50% dell’obiettivo, l’Università di Milano-Bicocca cofinanzierà la campagna di crowdfunding con ulteriori 5.000 euro. Ma le collaborazioni non finiscono qui, dato che il gruppo di ricerca lavora già da tempo con l’Acquario di Genova proprio sul tema della conservazione dei coralli attraverso l’attività di ricerca congiunta svolta presso la sede genovese del MaRHE Center ospitata all’interno dello stesso Acquario. Collaborazione che adesso si estende anche alla campagna di crowdfunding attraverso alcuni biglietti che l’Acquario ha messo a disposizione gratuitamente e che il team userà come ricompensa per i donatori più generosi. Intanto, la settimana scorsa anche la rivista Nature ha parlato di “Map the Giants” mettendo in evidenza la potenzialità di un progetto basato sulla “citizen science initiative”.

Per sostenere “Map the Giants” basta collegarsi alla pagina della campagna e fare una donazione scegliendo il metodo di pagamento preferito. Tra le ricompense per i sostenitori c’è anche l’opportunità di ricevere dei ringraziamenti “subacquei”, partecipare a un aperitivo in Bicocca con tutto il team, adottare un corallo che verrà trapiantato su una porzione di reef danneggiata e ricevere le due entrate all’Acquario di Genova.

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca.