L’IMPATTO DEL TUMORE DEL COLON-RETTO SUL BENESSERE PSICOLOGICO DEI PAZIENTI
Uno studio esplorativo condotto dal Dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino, in collaborazione con l’Azienda Ospedaliera Universitaria “Città della Salute e della Scienza” di Torino, ha indagato l’impatto del cancro del retto e dei trattamenti medici sul benessere psicologico.
Una ricerca condotta dal gruppo di ricerca “ReMind the Body” del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino in collaborazione conl’equipe del reparto di Radioterapia Oncologica dell’Azienda Ospedaliera Universitaria “Città della Salute e della Scienza” ha indagato l’impatto del cancro del colon-retto e dei trattamenti medici sul benessere psicologico dei pazienti. ùIn Italia, il tumore del colon-retto è il secondo più frequente dopo quello della mammella. Le ricercatrici Valentina Tesio, Agata Benfante e Annunziata Romeo, coordinate dal Prof. Lorys Castelli, dell’Università di Torino, hanno seguito per un periodo di circa 18 mesi dalla diagnosi oncologica e dall’inizio dei trattamenti un gruppo di 43 pazienti che avevano da poco ricevuto una diagnosi di cancro del retto localmente avanzato.
Lo studio, durato due anni e culminato in due lavori pubblicati rispettivamente sulle riviste scientifiche internazionaliClinical and Translational Radiation Oncology ePsychological Trauma: Theory, Research, Practice, and Policy, ha analizzato l’impatto della diagnosi e dei successivi trattamenti previsti per questa patologia oncologica non solo sulla qualità della vita e sui livelli di distress psicologico (ossia sintomi ansiosi e depressivi), ma anche sulla crescita post-traumatica (Post-Traumatic Growth – PTG), un cambiamento psicologico positivo nelle priorità e nelle nuove possibilità, nell’apprezzamento della vita, nella dimensione spirituale, nelle relazioni interpersonali e nel senso della vita, conseguente al fronteggiamento di circostanze di vita traumatiche che mettono in discussione le convinzioni personali, come può accadere con una diagnosi di cancro.
Al fine di esplorare quali fattori medico-psicologici possano predire gli esiti connessi al benessere psicologico di questa popolazione oncologica, la ricerca ha seguito i pazienti e le pazienti durante l’intero percorso di cura, che prevedeva la combinazione fra resezione chirurgica e trattamento chemioterapico e radioterapico, rivalutando la condizione medico-psicologica nelle seguenti fasi del trattamento: dopo la prima visita radioterapica, durante la quale venivano comunicate le indicazioni per la (chemio)radioterapia preoperatoria (T0 – diagnosi), almeno 1 mese dopo la fine del trattamento preoperatorio (T1, in media 3 mesi dopo la diagnosi), almeno 1 mese dopo la resezione chirurgica (T2, in media 6 mesi dopo la diagnosi) e al follow-up di almeno 1 anno dopo la resezione chirurgica (T3, in media 18 mesi dopo la diagnosi).
Alla valutazione iniziale i pazienti e le pazienti presentavano lievi sintomi fisici di tipo intestinale e dolorosi, direttamente associabili al tumore del retto localmente avanzato, con livelli moderati di distress psicologico e ansia per la salute probabilmente dovuti al carico emotivo iniziale connesso alla diagnosi di cancro e alla preoccupazione per gli effetti collaterali dei trattamenti preoperatori, in particolare quelli legati alla radioterapia, di cui i pazienti e le pazienti con cancro sono spesso poco consapevoli, come emerge anche dalla letteratura precedente sul tema.
Durante le fasi di trattamento attivo, si è evidenziato un peggioramento della qualità di vita, in particolare dopo l’intervento chirurgico, al quale è seguito un miglioramento nel follow-up a medio termine. L’ansia ha, invece, mostrato una traiettoria molto più fluttuante, con livelli elevati alla diagnosi che diminuiscono dopo il trattamento preoperatorio (solo il 10% presenta sintomi clinicamente rilevanti in questa fase), per aumentare nuovamente dopo l’intervento chirurgico (il 27% presenta sintomi clinicamente rilevanti in questa fase) e, infine, diminuire al follow-up. Inoltre, se da un lato è stata confermata la forte influenza dei sintomi fisici correlati al cancro e degli effetti collaterali dei trattamenti sulla qualità di vita dei pazienti e delle pazienti, particolarmente al momento della diagnosi e durante i trattamenti attivi, d’altra parte è emerso che la reazione psicologica alle prime fasi di diagnosi e trattamento (ossia gli stili di coping adottati per fronteggiare tali eventi stressanti) fosse determinante nel predire la qualità di vita dopo i trattamenti attivi e a medio termine.
Per quanto riguarda la crescita post-traumatica, si è riscontrato un suo aumento progressivo nel tempo, suggerendo che il processo di crescita psicologica si sviluppi gradualmente ma precocemente nei pazienti e nelle pazienti con cancro del retto, per poi mostrare un aumento più significativo tra la valutazione postoperatoria e il follow-up a medio-lungo termine. Inoltre, i livelli di crescita psicologica iniziali, ovvero quelli post trattamento preoperatorio, sono risultati essere il fattore predittivo più forte dei livelli di crescita misurati al follow-up, quasi un anno dopo, seguiti dagli stili di coping adottati nelle fasi iniziali del trattamento. Considerata la scarsità degli studi che hanno valutato longitudinalmente questa popolazione specifica sin dalle prime fasi di malattia/trattamento, questo dato è nuovo e incoraggiante da un punto di vista clinico, suggerendo l’importanza di sostenere e monitorare la reazione psicologica e il processo di crescita psicologica positiva fin dalle fasi iniziali della presa in carico oncologica.
“Questo studio – dichiara la Dott.ssa Agata Benfante– si inserisce in un ambito scientifico ancora poco approfondito e per il quale saranno necessari ulteriori studi longitudinali al fine di implementare interventi psicologici su misura e nei tempi più opportuni. La ricerca ha evidenziato come le diverse fasi del trattamento oncologico mostrino specifiche peculiarità, sia a livello di impatto psico-fisico, sia a livello di risposta psico-fisica del soggetto, che possono avere ripercussioni nel determinarne sul medio-lungo termine la qualità di vita e il benessere psicologico. Risulta pertanto di fondamentale importanza monitorare le risposte psicologiche nei pazienti e nelle pazienti con cancro del retto sin dalla diagnosi e durante le diverse fasi del trattamento, per identificare tempestivamente sintomi di disagio psicologico clinicamente rilevanti, per promuovere risposte adattive al cancro e per sostenere il processo di crescita psicologica”.
“La diagnosi di cancro – ha aggiunto la Ricercatrice Dott.ssa Valentina Tesio – può non solo portare a esiti di salute mentale negativi, come il disagio psicologico clinicamente rilevante, ma può, e deve, anche innescare cambiamenti psicologici positivi, come la crescita post-traumatica, e sono proprio le diverse caratteristiche intrapsichiche dell’individuo a contribuire al suo adattamento alla malattia e ad influenzare gli esiti psicologici. È, quindi, necessaria una valutazione in chiave biopsicosociale, a partire dalla comunicazione della diagnosi, attraverso tutte le fasi successive del processo terapeutico fino al follow-up, poiché ogni fase presenta specificità fisiche e psicologiche. Sulla base di queste specificità, i servizi di supporto dovrebbero essere adattati sia al singolo individuo sia alla fase di trattamento, in particolare attuando interventi preventivi e pre-abilitativi multidisciplinari e multimodali nei momenti più opportuni per migliorare sia le reazioni legate al cancro che la qualità della vita e la salute psicologica nel medio termine”.
CONVIVERE CON L’HIV: QUANDO LA REGOLAZIONE DELLE EMOZIONI HA UN PESO SULLA MALATTIA
Una ricerca dell’Università di Torino pubblicata sulla rivista scientifica internazionale AIDS and Behavior ha messo in evidenza il ruolo dell’alessitimia, disturbo che consiste in un deficit della consapevolezza emotiva, in persone che vivono con HIV.
L’infezione da HIV danneggia il sistema immunitario distruggendo le cellule CD4, un sottogruppo di globuli bianchi. Da un report del 2021, si stima che nel mondo ci siano 38,4 milioni di persone che vivono con l’HIV, di cui 36,7 milioni di età pari o superiore a 15 anni, il 53% di sesso femminile e 1,5 milioni di nuove diagnosi. Ad oggi, grazie alla terapia antiretrovirale si ottiene un rapido controllo dell’HIV e un parziale ripristino della funzione immunitaria. La terapia, se correttamente e costantemente assunta, rende la persona non più infettabile e permette di prevenire l’insorgenza delle complicanze che definiscono la sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS).
Diversi aspetti psicologici sono stati studiati in termini di fattori di rischio per la non aderenza al trattamento. Tra questi fattori vi è l’alessitimia, una caratteristica psicologica intesa come difficoltà nel riconoscere, descrivere ed esprimere le proprie emozioni e che sembra associata a diverse condizioni sia psicologiche che mediche.
Uno studio condotto dalle ricercatrici Agata Benfante e Annunziata Romeo del gruppo “ReMind the Body” del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino, pubblicato sulla rivista scientifica internazionale AIDS and Behavior, ha messo in luce un’associazione significativa tra alessitimia e gravità della malattia, comportamento di aderenza al trattamento, disturbi cardiovascolari e deterioramento cognitivo nelle persone che vivono con HIV.
Il campione preso in considerazione da tutti gli studi analizzati (14) ha un’età media tra i 35 e i 47 anni ed è prevalentemente di genere maschile. La prevalenza dell’alessitimia tra le persone che vivono con HIV oscilla tra il 10% e il 25%. Inoltre, da queste ricerche emerge che l’alessitimia sia associata alla gravità della malattia (es. livello di viremia) e all’aderenza alla terapia antiretrovirale. Questa difficoltà nella regolazione delle emozioni sembra essere implicata sia nei disturbi cardiovascolari sia nel deterioramento cognitivo in comorbidità con l’infezione da HIV. Nello specifico, i pazienti con elevate difficoltà nella regolazione delle proprie emozioni tendono ad essere meno aderenti alla terapia, col rischio di una maggiore resistenza farmacologica e una ricaduta negativa sui livelli di viremia.
Questi pazienti tendono ad avere anche maggiori difficoltà nelle relazioni interpersonali, che possono ricadere, ad esempio, nella relazione medico-paziente, e nella maggiore tendenza ad evitare l’uso delle relazioni sociali come risorsa personale per affrontare una condizione medica cronica. Infine, elevati livelli di alessitimia sembrano aumentare il rischio di problemi cardiovascolari (come diabete e ipertensione) e predire alcune disfunzioni neuropsicologiche (peggiore attenzione, memoria di lavoro, organizzazione visuo-spaziale) in pazienti con HIV. Una condizione di vita cronica e stressante come convivere con una diagnosi di HIV insieme a caratteristiche individuali, come l’alessitimia, influenza la qualità di vita ed il benessere psicologico dell’individuo.
La ricerca suggerisce che un’attenta valutazione del processo di regolazione emotiva può fornire informazioni prognostiche rilevanti e utili nell’approccio al paziente. L’identificazione dei diversi processi attraverso i quali l’alessitimia è correlata alla gravità della malattia consente di individuare coloro che presentano maggiore probabilità di sviluppare una condizione clinica peggiore. Trattamenti psicologici incentrati sui processi di regolazione emotiva, in aggiunta alle necessarie terapie antiretrovirali, potrebbero aiutare le persone che vivono con l’HIV a migliorare le loro capacità sociali e cognitive, a mantenere nel tempo l’aderenza farmacologica e a migliorare la loro qualità di vita.
I risultati di questa revisione della letteratura diventano uno spunto di riflessione più ampio e generale, ponendo l’accento sull’importanza di una visione multifattoriale della salute, che stimoli la realizzazione di ulteriori protocolli di ricerca, così come di interventi più mirati.
Testo dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino
Sulla base di tali premesse, l’Università di Torino, in particolare il gruppo di ricerca del professor Lorys Castelli del Dipartimento di Psicologia, ha condotto due studi: il primo si è concentrato sulla popolazioneitaliana ed il secondo sugli operatori sanitari. Questi due studi si sono posti come obiettivo quello di indagare l’impatto psicologico che il Covid-19 ha avuto su questi due tipi di popolazione. In particolare, il focus è stato posto sull’insorgenza e sull’eventuale aggravamento di psicopatologie legate allo stress derivante da questa situazione di emergenza, quali ansia, depressione e sintomi da stress post-traumatico (PTSS).
È stato dimostrato come gli operatori sanitari impegnati nei reparti Covid-19 vadano in maggior misura incontro a sintomi depressivi e sintomi da stress post-traumatico, rispetto ad altri operatori sanitari impegnati in altri reparti, che non trattano pazienti Covid-19. Questo dato è spiegato da alcune caratteristiche del lavoro dei primi, come: l’esposizione al virus, lo scarso riposo, la scarsità di Dispositivi di Protezione individuale (DPI) e lo sforzo impiegato nel cercar di tenere in vita i pazienti; si ritiene che tali caratteristiche possano incidere pesantemente sullo sviluppo delle psicopatologie correlate allo stress precedentemente accennate. Per quanto riguarda, invece, lo studio sull’impatto psicologico del Covid-19 sulla popolazione italiana, quest’ultimo si è posto come scopo quello di analizzare le variabili socio-demografiche, biomediche e di qualità della vita nel ruolo di predittori dei sintomi da stress post-traumatico. I risultati hanno dimostrato come i fattori di rischio di sviluppo di sintomi da stress post traumatico, che potrebbero evolversi in Disturbo da Stress Post-Traumatico, siano stati: sesso femminile, basso livello di educazione e contatto con persone affette da Covid-19. Sulla base dei risultati di questi due studi si potrebbe giungere ad uno screening psicologico più efficiente, che permetterebbe un intervento più rapido e specifico, anche e soprattutto nei confronti degli individui più svantaggiati.
Abbiamo intervistato il professor Lorys Castelli e la dott.ssa Agata Benfante, entrambi dell’Università degli studi di Torino, che hanno risposto alle domande di ScientifiCult.
L’intervista
Impatto psicologico della pandemia: soggetti a rischio
Nello studio da voi condotto sulla popolazione generale il ruolo dell’età sui PTSS e sulla sintomatologia depressiva e ansiosa è risultato marginale. Al contrario, nello studio condotto sul personale sanitario è emerso un trend che correla la maggiore età ad un maggior rischio di sviluppare PTSS. Nella vostra opinione, in generale, qual è il ruolo che gioca l’età nello sviluppo di queste sintomatologie in risposta all’emergenza COVID-19? E a cosa potrebbe essere dovuta la differenza di significatività di questo predittore fra i due studi?
Nella letteratura riguardante lo sviluppo di PTSD è noto come l’età, a cui viene vissuto l’evento traumatico, influisca sullo sviluppo successivo della sintomatologia, benché essa possa presentarsi in qualunque fase della vita e sia anche strettamente connessa alla portata dell’evento in sé e alle risorse del soggetto. Negli studi sugli operatori sanitari, i risultati riguardo alla significatività dell’età non sono sempre concordi. Infatti, alcuni studiosi hanno riscontrato piu’ PTSS tra gli operatori più giovani, mentre in altri studi sono stati ottenuti risultati in linea con il nostro. Le spiegazioni addotte sono molteplici e riguardano aspetti inerenti alle condizioni stesse di lavoro: essere più giovani può significare avere minori anni d’esperienza, che rendono le condizioni di emergenza più difficili da gestire; essere più anziani può comportare maggiori difficoltà a sostenere i ritmi e i lunghi turni di lavoro. Uno studio sugli operatori sanitari ha anche messo in luce come la fascia di età studiata può influenzare in modo diverso l’oggetto della preoccupazione: i soggetti più giovani erano maggiormente preoccupati di trasmettere il virus Sars-Cov-2 ai familiari, mentre nel personale più anziano causava maggiore stress la morte dei pazienti e dei colleghi. La differenza di significatività di questo predittore fra i due studi da noi condotti potrebbe, quindi, ricollegarsi al differente carico fisico e psicologico tra la popolazione generale e gli operatori sanitari. (Tang et al., 2017; Cai et al., 2020; Spoorthy, 2020)
Nella Vostra ricerca riguardante gli operatori sanitari, come anche nella ricerca sulla popolazione generale, è emerso che le donne sono molto più predisposte a sviluppare PTSS. Come si potrebbe spiegare questo risultato da un punto di vista psicologico?
In linea sia con gli studi sugli effetti psicologici di precedenti epidemie sia con quelli relativi al COVID-19 dai nostri risultati emerge una più elevata prevalenza di PTSS tra le donne. Le spiegazioni potrebbero essere molteplici e su queste gli studiosi continuano ad indagare. Alcuni autori avanzano ipotesi connesse a differenze di genere psicofisiologiche, ormonali e di reattività delle reti neurali associate alla paura e alle risposte di arousal (Liu et al., 2020). Inoltre, per entrambi i nostri studi bisogna tener conto anche della più elevata percentuale di donne partecipanti, rispetto agli uomini. Nello studio sulla popolazione generale il 69% dei rispondenti erano donne, in quello rivolto agli operatori sanitari il 72%. Questo “bias”, presente in molti altri, studi non permette di trarre conclusioni definitive a riguardo.
Tra chi ha una probabilità più alta di sviluppare PTSS vi sono persone con un grado di educazione basso. Ritenete che questo derivi dalla difficoltà di quest’ultime di accedere ai servizi di supporto psicologico offerti alle persone? Quanto può essere importante l’informazione sui rischi per la salute mentale (e non solo su quella fisica) in questa situazione di pandemia?
Si può ipotizzare che soggetti con un grado di istruzione inferiore abbiano maggiori difficoltà a discriminare tra le molteplici e spesso contrastanti informazioni. A ciò si potrebbe aggiungere la possibilità di un mancato riconoscimento di malessere psicologico e una mancata informazione sui servizi disponibili ed accessibili. È fondamentale fornire adeguata informazione, a più livelli, sui rischi per la salute non solo fisica, ma anche psicologica. Nel nostro Paese, la necessità di servizi psicologici è ancora molto spesso disconosciuta tanto a livello istituzionale, quanto a livello individuale. Su questo fronte l’Ordine degli Psicologi è costantemente impegnato, conquistando anno dopo anno riconoscimenti e offrendo sempre maggiori servizi per il benessere di tutti i cittadini. Inoltre, è importante sensibilizzare l’opinione pubblica contro lo stigma della malattia mentale, fornendo una visione più completa di salute e malattia, in accordo con le più recenti definizioni a livello mondiale.
L’impatto e i numeri relativi all’emergenza COVID-19 sono stati notevolmente differenziati fra le regioni d’Italia, in particolare in riferimento alla differenza fra Nord e Sud. All’interno della vostra analisi, tuttavia, la posizione geografica non è risultata un predittore sociodemografico significativo della presenza di PTSS. In quale maniera è stato configurato il fattore “posizione geografica” all’interno della regressione logistica? A cosa pensate sia dovuta la mancanza di significatività di questo fattore? Inoltre, pensate che confrontando il fattore su diversi livelli di analisi (es: provincia, regione, parte d’Italia) si possano rilevare significatività interessanti rappresentative dei fenomeni osservati nei media durante il lockdown (es: gli eventi di Bergamo)?
Nelle nostre analisi abbiamo considerato due aree geografiche, Nord e Centro/Sud; questo per poter distinguere le zone inizialmente più colpite, da quelle in cui si registrava un numero inferiore di casi. Il 71% circa del campione totale ha riportato di vivere in una regione del Nord Italia. Ulteriori confronti rispetto a provincia o regione avrebbero richiesto un campione più ampio e maggiormente rappresentativo di queste realtà. Benché non sia possibile rintracciare una spiegazione certa alla mancanza di significatività del fattore geografico, si può pensare che il lockdown, esteso già a tutto il territorio nazionale da circa 10 giorni al momento dell’avvio dello studio, avesse procurato degli effetti psicologici significativi su tutta la popolazione. Inoltre, si potrebbe anche considerare che i soggetti residenti in regioni meno colpite abbiano, attraverso i media, vissuto comunque il dramma che stava più intensamente colpendo il Nord, analogamente a ciò che emerge in uno studio sulla cosiddetta traumatizzazione vicaria, che potrebbe in alcuni casi risultare peggiore nella popolazione generale, rispetto agli operatori sanitari impegnati in prima linea nella lotta al COVID-19 come evidenzia lo studio di Li et al., 2020.
Alcuni operatori sanitari, nel corso dell’emergenza, hanno ricevuto supporto psicologico mirato per meglio sostenere le gravose condizioni di lavoro relative all’emergenza COVID-19. Quanto ritenete che questo genere di interventi abbiano influenzato gli esiti del vostro studio? Ritenete che possa essere interessante andare ad indagare l’efficacia di tali interventi nel determinare la risposta degli operatori all’emergenza?
Considerando il periodo temporale in cui lo studio è stato condotto, si può ragionevolmente supporre che fossero pochi gli operatori sanitari coinvolti che avessero già fatto ricorso a servizi di supporto psicologico. Sicuramente sarà importante indagare l’efficacia degli interventi proposti e le conseguenze nel determinare la risposta degli operatori all’emergenza. Tale filone di ricerca trova già degli esempi nella valutazione dell’efficacia di interventi psicologici e di supporto agli operatori sanitari durante le passate epidemie che hanno interessato alcuni Paesi del mondo. Questi studi hanno riscontrato sia miglioramenti nella salute mentale degli operatori, sia miglioramenti secondari sulla qualità del lavoro svolto dagli stessi operatori, inserendosi nel solco degli studi più generali sul burn-out.
Prospettive per il futuro: pandemia, intervento psicologico e ricerca
Entrambi gli studi condotti presentano importanti implicazioni cliniche potenziali, in particolare per il trattamento dei PTSS, dove l’intervento precoce può risultare determinante nella prevenzione dello sviluppo del PTSD. Fra gli interventi da voi suggeriti a tal fine viene proposta in particolare un’intensificazione degli screening; se volessimo riferirci ad interventi psicosociali su larga scala, quali potrebbero essere altri interventi di prevenzione e di supporto volti alla popolazione per prevenire l’intensificarsi e lo stabilizzarsi dei PTSS?
L’intensificazione dello screening psicologico nella popolazione generale e, in particolare, negli operatori sanitari consentirebbe un’individuazione precoce di condizioni di maggiore rischio per lo sviluppo di disturbi psicopatologici. Un esempio di intervento virtuoso è certamente rappresentato dall’attivazione dei servizi di supporto psicologico telefonico, che l’Ordine degli Psicologi, le Università e le associazioni hanno predisposto ed offerto già nei mesi di lockdown. Probabilmente l’implementazione e la diffusione capillare di informazioni relative a questo genere di servizi consentirebbero di agire simultaneamente su più fronti: quello dello screening, del supporto nelle situazioni più favorevoli e dell’eventuale invio a servizi più specifici nei casi più critici. È necessario fare corretta informazione sui possibili effetti psicologici degli eventi stressanti (come la pandemia e le condizioni di restrizioni in cui ci siamo trovati e ci troviamo a vivere), sui servizi già attivi e su quelli che dovrebbero essere attivati sulla base proprio delle necessità che sono emerse dagli studi. La situazione vissuta ha messo ulteriormente in luce la necessità di realizzare, su tutto il territorio italiano, l’implementazione di servizi psicologici che potrebbero avere come compito inziale quello di mettere in atto uno screening su larga scala.
Come da voi riportato nei limiti di entrambi gli studi, a partire dai risultati rilevati non è possibile escludere la pre-esistenza di sintomatologia depressiva o ansiosa nei soggetti prima dell’arrivo del Sars-Cov-2 in Italia. Né tantomeno è possibile prevedere la potenziale evoluzione dei PTSS in PTSD o la loro eventuale recessione spontanea nel futuro prossimo. La naturale prosecuzione degli studi da voi condotti sarebbe quindi, come da voi suggerito, il ricorso ad analisi di tipo longitudinale. Avete in piano di svolgere tali tipi di studi in futuro? Nell’esecuzione di studi di questo tipo quali altri aspetti potrebbero essere eventualmente indagati?
Gli studi pubblicati hanno avuto l’intento di fornire una fotografia della sintomatologia ansiosa, depressiva e post-traumatica nella popolazione italiana e negli operatori sanitari, durante le prime settimane di lockdown. L’obiettivo più generale del nostro progetto di ricerca è quello di rivalutare a distanza di tempo i soggetti, facendo ricorso ad analisi di tipo longitudinale. Questo permetterà di valutare come tale sintomatologia si sarà evoluta nel corso del tempo anche in funzione degli sviluppi dell’emergenza pandemica. La rivalutazione dei soggetti consentirà, inoltre, di indagare altri aspetti connessi all’impatto di eventi traumatici. Negli ultimi anni ci si è interessati non solo agli aspetti psicopatologici conseguenti all’esposizione a un trauma, come lo sviluppo del disturbo da stress post-traumatico (PTSD) e di sintomi dissociativi, ma anche ai cambiamenti positivi che possono farvi seguito determinando una crescita psicologica del soggetto. La crescita post-traumatica (PTG) implica il manifestarsi di cambiamenti positivi in ambito personale, relazionale, spirituale ed un maggior apprezzamento per la vita, determinati da processi emotivi e cognitivi di ri-attribuzione di significato e di ristrutturazione delle convinzioni sul sé e il mondo. Sarà, quindi, nostro interesse comprendere in che modo vari costrutti esaminati impattino sui processi di elaborazione di eventi stressanti, così da implementare le conoscenze relative ai fenomeni di cambiamenti post-traumatici, sia negativi sia positivi.
Si ringraziano il professor Lorys Castelli e la dott.ssa Agata Benfante.
Bibliografia:
Cai, W., Lian, B., Song, X., Hou, T., Deng, G., & Li, H. (2020). A cross-sectional study on mental health among health care workers during the outbreak of Corona Virus Disease 2019.Asian Journal Of Psychiatry, 51, 102111. doi: 10.1016/j.ajp.2020.102111
Castelli, L., Di Tella, M., Benfante, A., & Romeo, A. (2020). The Spread of COVID-19 in the Italian Population: Anxiety, Depression, and Post-traumatic Stress Symptoms.The Canadian Journal Of Psychiatry, 65(10), 731-732. doi: 10.1177/0706743720938598
Di Tella, M., Romeo, A., Benfante, A., & Castelli, L. (2020). Mental health of healthcare workers during the COVID ‐19 pandemic in Italy.Journal Of Evaluation In Clinical Practice. doi: 10.1111/jep.13444
Li, Z., Ge, J., Yang, M., Feng, J., Qiao, M., & Jiang, R. et al. (2020). Vicarious traumatization in the general public, members, and non-members of medical teams aiding in COVID-19 control.Brain, Behavior, And Immunity, 88, 916-919. doi: 10.1016/j.bbi.2020.03.007
Liu, N., Zhang, F., Wei, C., Jia, Y., Shang, Z., & Sun, L. et al. (2020). Prevalence and predictors of PTSS during COVID-19 outbreak in China hardest-hit areas: Gender differences matter.Psychiatry Research, 287, 112921. doi: 10.1016/j.psychres.2020.112921
Spoorthy, M., Pratapa, S., & Mahant, S. (2020). Mental health problems faced by healthcare workers due to the COVID-19 pandemic–A review.Asian Journal Of Psychiatry, 51, 102119. doi: 10.1016/j.ajp.2020.102119
Tang, L., Pan, L., Yuan, L., & Zha, L. (2017).Prevalence and related factors of post-traumatic stress disorder among medical staff members exposed to H7N9 patients.International Journal Of Nursing Sciences, 4(1), 63-67. doi: 10.1016/j.ijnss.2016.12.002