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I fossili raccontano la fine dell’era glaciale del tardo Paleozoico, 294 milioni di anni fa

Un team internazionale di scienziati di cui fanno parte l’Università degli Studi di Milano e l’Università Sapienza di Roma, analizzando fossili di brachiopodi ha dimostrato come nel Paleozoico l’incremento di anidride carbonica (CO2), dovuto a un’intensa attività vulcanica, sia risultato concomitante alla riduzione dei ghiacciai e a un incremento della temperatura superficiale media degli oceani fino a 4 gradi centigradi. Questo studio pubblicato su Nature Geoscience ci può aiutare a comprendere meglio i cambiamenti climatici attualmente in atto e le loro conseguenze.

1. Ricostruzione artistica della deglaciazione avvenuta nel Permiano Inferiore causata da un rapido incremento della CO2, avvenuta circa 294 milioni di anni fa (realizzato da Dawid Adam Iurino)
1. Ricostruzione artistica della deglaciazione avvenuta nel Permiano Inferiore causata da un rapido incremento della CO2, avvenuta circa 294 milioni di anni fa (realizzato da Dawid Adam Iurino)

Studiare il riscaldamento globale del passato per capire i cambiamenti climatici del presente. Durante la sua lunga storia, la Terra ha sperimentato condizioni climatiche molto diverse, alternando fasi glaciali a periodi di riscaldamento globale che hanno plasmato il pianeta e influenzato l’evoluzione degli organismi. Ancor prima della comparsa dei dinosauri, durante il tardo Paleozoico (circa 300 milioni di anni fa) ebbe luogo una delle glaciazioni più estese, terminata con una fase di riscaldamento che portò alla scomparsa quasi completa dei ghiacciai e delle calotte polari con importanti conseguenze sulla biodiversità.

2. Variazioni della concentrazione di CO2 in atmosfera prima, durante e dopo la deglaciazione di fine Paleozoico
2. Variazioni della concentrazione di CO2 in atmosfera prima, durante e dopo la deglaciazione di fine Paleozoico

Un team internazionale di scienziati, tra cui ricercatori dell’Università Statale di Milano, dell’Università la Sapienza di Roma e dell’Università di St. Andrews in Scozia, ha preso in esame la glaciazione del tardo Paleozoico e il suo declino, seguito da un considerevole aumento delle temperature, per comprendere meglio l’attuale emergenza climatica.

I risultati di questo studio, pubblicati sulla rivista internazionale Nature Geoscience, ricostruiscono per la prima volta i livelli atmosferici di CO2 lungo un arco temporale di 80 milioni di anni.

L’atmosfera del passato viene spesso studiata attraverso l’analisi di piccole bolle d’aria inglobate nelle calotte polari, grazie alle quali siamo capaci di ricostruire con precisione le variazioni climatiche fino a circa 800 mila anni fa. Ma la sfida affrontata da questo studio è stata quella di sviluppare metodologie in grado di risalire a un intervallo compreso tra 340 e 260 milioni di anni fa. Sono stati così presi in oggetto i fossili brachiopodi, invertebrati marini con una conchiglia costituita da carbonato di calcio, molto abbondanti durante il Paleozoico e tuttora rappresentati da alcune specie viventi. Dalle analisi è emerso come i livelli di CO2 fossero intimamente connessi all’evoluzione della glaciazione e alla sua fine. I ricercatori hanno infatti misurato bassi livelli di anidride carbonica concomitanti alla formazione di estese calotte polari. Viceversa, l’incremento di CO2, che fu il prodotto di un’intensa attività vulcanica, è risultato contemporaneo a una riduzione globale dei ghiacciai e a un incremento della temperatura superficiale media degli oceani fino a 4 gradi centigradi. E oggi, proprio come è avvenuto 300 milioni di anni fa, il riscaldamento dell’atmosfera, causato dall’aumento della presenza di CO2 e di gas metano, ha innescato una evidente riduzione dei ghiacciai e delle calotte polari.

“I fossili e le caratteristiche geochimiche dei loro resti sono una preziosa fonte di informazioni, che ci permette di ricostruire il clima e gli ambienti in cui questi organismi sono vissuti, anche nel tempo profondo, e confrontare questi dati con i cambiamenti attualmente in atto” afferma Lucia Angiolini, docente del Dipartimento di Scienze della Terra Ardito Desio dell’Università degli Studi di Milano.

3. La prof. Lucia Angiolini osserva e campiona materiale fossile da alcuni affioramenti rocciosi del Carbonifero in Scozia
3. La prof. Lucia Angiolini osserva e campiona materiale fossile da alcuni affioramenti rocciosi del Carbonifero in Scozia

“Mentre l’organismo cresce, la sua conchiglia si espande ed incorpora numerosi elementi e composti chimici che vanno a costituire una sorta di archivio per tutto il suo ciclo vitale. Infatti è noto come le conchiglie siano legate alla composizione dell’acqua marina e alla variazione di molteplici parametri tra cui la temperatura e l’acidità (pH)”, sottolinea Claudio Garbelli, docente dell’Università Sapienza di Roma.

“Alcuni elementi presenti nel carbonato di calcio delle conchiglie sono determinati dai valori di pH dell’acqua marina che, a sua volta, dipende dalla quantità di CO2 atmosferica”, aggiunge Hana Jurikova, ricercatrice dell’Università di St. Andrews in Scozia e prima autrice dello studio. “Misurando alcuni degli elementi contenuti nelle conchiglie fossili (quali ad esempio il boro e lo stronzio) e con l’ausilio di sofisticati modelli matematici, siamo stati in grado di ricostruire con una certa precisione la quantità di CO2 presente in atmosfera lungo un arco temporale di 80 milioni di anni, tra 340 e 260 milioni di anni fa”, conclude Jurikova.

Studi come questo, oltre ad evidenziare l’importanza dei fossili come archivi di informazioni utili per comprendere le dinamiche dei cambiamenti climatici e ambientali avvenuti nel passato, rappresentano una fonte di dati indispensabile per sviluppare modelli predittivi dei fenomeni attualmente in atto e del loro impatto sulla biodiversità.

4. Un brachiopode fossile del Permiano, chiamato Pachycyrtella, proveniente dal Permiano inferiore dell’Oman
4. I fossili raccontano la fine dell’era glaciale del tardo Paleozoico: un brachiopode fossile del Permiano, chiamato Pachycyrtella, proveniente dal Permiano inferiore dell’Oman

 

Riferimenti bibliografici:

Jurikova, H., Garbelli, C., Whiteford, R. et al. Rapid rise in atmospheric CO2 marked the end of the Late Palaeozoic Ice Age, Nat. Geosci. (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41561-024-01610-2

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma e dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.

APPROCCIO INTERDISCIPLINARE NELL’AFFRONTARE LE ATTUALI SFIDE ECOLOGICHE: È NECESSARIO CAMBIARE IL NOSTRO APPROCCIO ALLA RICERCA

Un gruppo di 20 ricercatori, di cui 5 dell’Università di Torino, ha esplorato la “fertilizzazione incrociata”, un’innovativa pratica interdisciplinare sul nesso chimica-energia così cruciale nell’antropocene

 

Un gruppo di 20 ricercatori, provenienti dall’area delle Scienze Chimiche e delle Scienze Sociali (di cui 5 dell’Università di Torino), dopo aver condiviso una settimana di studio e approfondimento in occasione di una scuola invernale (http://catenerchem.cpe.fr), ha esplorato un’innovativa pratica interdisciplinare volta a costruire una scienza diversa da quella esistente, per affrontare alcune delle principali sfide ecologiche del XXI secolo. Da questa interazione è nato l’articolo An anthropocene-framed transdisciplinary dialog at the chemistry-energy nexus, pubblicato su Chemical Science, la rivista di riferimento della Royal Society of Chemistry (RSC).

Gli autori hanno fatto una valutazione dettagliata del ciclo di vita di cinque entità chimiche particolarmente critiche per la transizione energetica – anidride carbonica, idrogeno, metano, ammoniaca e materiali plastici – basata su un esame approfondito dei dati disponibili, delle direzioni strategiche di ricerca proposte da alcuni importanti attori pubblici e privati, in termini di conseguenze sia ecologiche che sociali. Ciò ha consentito di identificare esistenti tensioni reali e persino contraddizioni inconciliabili in alcune aree di ricerca.

Sulla base di un’analisi interdisciplinare alcune opzioni tecnologiche, seppur auspicabili dal punto di vista di un’analisi mono-disciplinare, si rivelano invece dannose dal punto di vista ecologico, sociale o economico. Gli autori hanno dimostrato che solo un dialogo profondo e radicale tra le discipline può rivelare queste tensioni e quindi portare a una ricerca più consapevole e informata delle sfide da fronteggiare.

Con un’analisi di tipo storico è stato possibile comprendere meglio le interconnessioni tra le molecole oggetto di studio e, più in generale, tra le diverse opzioni tecnologiche che più da vicino le riguardano. L’avvalersi della teoria dei giochi e dell’economia mette in luce i rischi associati ad un eccessivo ottimismo sulla capacità di alcuni percorsi di ricerca di essere finanziati e diffusi su scala nazionale o internazionale.

Attingere agli studi culturali contribuisce ad accrescere la consapevolezza delle implicazioni Nord-Sud di alcune innovazioni, dando maggiore rilievo a visioni del mondo e del progresso diverse da quelle specifiche delle società del Nord globale. L’interesse per le scienze sociali permette inoltre di rimuovere potenziali conflitti d’utilizzo e di potere, legati alla disponibilità e al controllo dei materiali critici necessari per la produzione di alcune specie chimiche. Questi, riportati in dettaglio nello studio sono solo alcuni esempi della “fertilizzazione incrociata” che può avvenire attraverso un dialogo interdisciplinare.

“Di fronte alla crisi ecologica e alle sue molteplici sfaccettature, – dichiara Silvia Bordiga, docente del Dipartimento di Chimica UniTo – l’attuale approccio scientifico, dipendente ancora troppo da divisioni disciplinari e sub-disciplinari, e spesso non lascia spazio ad una completa condivisione degli strumenti e delle conoscenze delle Scienze Naturali (Biologia, Chimica e Fisica) e delle Scienze Sociali. Non riuscendo a stabilire stabili legami tra le discipline, la ricerca sta abdicando alla capacità di formulare soluzioni sostenibili. Questo studio è un invito ben documentato a sfruttare appieno la ricchezza delle varie discipline per costruire una scienza diversa da quella esistente, che sia in grado di offrire potenziali soluzioni alla crisi ecologica ed energetica”.

A proposito delle implicanze energia-chimica-mondo globale, cinque sostanze (l’anidride carbonica (CO2), l’idrogeno (H2), il metano (CH4), l’ammoniaca (NH3) ed i biopolimeri sono state analizzate in modo incrociato con il quadro di riferimento planetario e come parte di cinque “roadmaps” delineate da associazioni internazionali, considerate il riferimento per la definizione delle strategie politiche per la transizione energetica. Gli autori hanno inoltre considerato i punti di vista che emergono da altre discipline inerenti alla sfera umanistica (storia, economia, scienze politiche, etica etc.) per sottolineare che spesso si incontrano degli elementi di frattura rispetto a quanto emerso dalle aree più tecniche.

“In questo contesto – conclude Bordiga – riteniamo che gli elementi interdisciplinari della storia, dell’economia e dell’antropologia siano rilevanti per qualsiasi tentativo di analisi incrociata. Le intuizioni distintive e cruciali tratte da elementi delle scienze umane e sociali ci hanno portato a riconsiderare questioni aperte e possibili punti senza sbocco presenti nelle principali roadmap, sviluppate per guidare la ricerca chimica verso la transizione energetica. Riteniamo che queste questioni aperte non siano sufficientemente affrontate nell’arena delle Scienze Naturali, malgrado siano rilevanti per una piena comprensione dell’attuale crisi planetaria e per la nostra capacità di valutare correttamente il potenziale e i limiti dei risultati e delle proposte avanzate dalla ricerca scientifica”.

Silvia Bordiga. Fotografia di Elisa Giuliano
Silvia Bordiga. Fotografia di Elisa Giuliano

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

ALBARELLA, PARCO DEL DELTA DEL PO: ENERGIA SOLARE, DIETA VEGETARIANA E MOLTI ALBERI SONO LA RICETTA PILOTA DEL PROGETTO ALBA, PER IL PIANETA

Pubblicata su «PLOS Climate» ricerca dell’Università di Padova che simula l’impatto delle emissioni sull’isola di Albarella nel Parco del Delta del Po

Non è un segreto che il clima del pianeta stia cambiando anche per il fatto che in atmosfera la concentrazione dei gas a effetto serra è aumentata: in particolare, l’anidride carbonica è passata da 330 ppm (parti per milione) negli anni ‘70 a 420 ppm nel 2024, con conseguenze disastrose sul clima – riscaldamento della temperatura media dell’aria di 1,5-2 °C, ancora in crescita, fusione delle calotte polari, deregolamento del clima in generale –. Un’allerta internazionale è stata lanciata dal gruppo di scienziati dell’Intergovernmental Panel on Climate Change attraverso i loro periodici Reports e, parallelamente, la politica e l’industria mondiali stanno promuovendo il passaggio da energie derivate da risorse fossili a energie rinnovabili a bassa emissione di CO2 e meno impattanti sull’ambiente.

Lo studio dal titolo “Tackling climate change: the Albarella island example” pubblicato sulla rivista «PLOS Climate» che vede come primo autore Augusto Zanella, docente del Dipartimento Territorio e Sistemi Agro-Forestali dell’Università di Padova, si focalizza sul bilancio di COequivalente dell’isola di Albarella, nel Parco del Delta del Po (Rovigo), in modo da programmare un cambiamento sostenibile in 10 anni delle fonti energetiche, dello stoccaggio naturale del carbonio e dei consumi sull’isola.

«Con l’aiuto di studenti, gestori e abitanti dell’isola abbiamo raccolto i dati necessari per stilare un bilancio annuale delle emissioni di COequivalente, cioè tutto ciò che serve a fare funzionare un’isola da più di 110 mila turisti all’anno in termini di energia e risorse» commenta Augusto Zanella, primo autore della ricerca.

Tutte le entrate e uscite di beni ed energia legati al funzionamento economico dell’isola sono state convertite in emissioni di COvirtuale in modo da programmare un cambiamento sostenibile in 10 anni delle fonti energetiche, dello stoccaggio naturale del carbonio e dei consumi sull’isola di Albarella.

Le variabili investigate sono:

1) stoccaggio netto di carbonio degli ecosistemi semi-naturali;

2) dieta degli esseri umani presenti sull’isola;

3) energia fossile attualmente utilizzata;

4) domanda di energia elettrica;

5) rifiuti prodotti;

6) trasporti.

«Invece di tentare di risolvere il problema su scala mondiale, abbiamo deciso di provare su una superficie confinata come quella di un’isola per vedere se su piccola scala e con le tecnologie disponibili oggi il problema sia concretamente risolvibile in un tempo sufficientemente breve» aggiunge Zanella.

I ricercatori hanno ipotizzato due scenari “estremi”: da un lato l’economia dell’isola rimane invariata, quindi nessuna differenza rispetto al passato, dall’altro uno scenario molto più ottimistico che prevede il miglioramento tecnologico ai fini di ridurre le emissioni: per esempio l’utilizzo esclusivo di energia prodotta da pannelli solari, l’impianto di alberi su metà dei prati dell’isola, una dieta vegetariana per abitanti e turisti, il riciclo sull’isola di tutti i rifiuti.

Se si avverasse lo scenario più ottimistico, in 10 anni le emissioni nell’isola si ridurrebbero dei ¾, tornando ai livelli degli anni ’60. Queste ridotte emissioni sarebbero causate da tre variabili principali: costruzione, funzionamento e riciclo dei pannelli solari (25% delle emissioni); i consumi alimentari di abitanti e turisti, (60,5%); gli impianti di alberi ancora in crescita che stoccherebbero il 14,5% delle emissioni prima di raggiungere la maturità.

«La nostra ricerca è un esempio pratico diretto, una simulazione basata su dati reali e oggettivi. Siamo consapevoli che la nostra esperienza non può rappresentare la complessa realtà del nostro pianeta: essa rivela che in un’area turistica geograficamente limitata, una popolazione preparata al cambiamento che impieghi nuove tecnologie potrebbe sperare di ridurre fino al 25% le emissioni di COequivalente. Le perdite energetiche irrimediabili e la necessità di nutrire una densa popolazione umana impedirebbero quindi oggi di scendere sotto questa soglia minima. Per raggiungere questo obiettivo – non completamente risolutivo –, bisogna avere volontà di cambiare e disponibilità economica», conclude Zanella.

Augusto Zanella
Augusto Zanella

Il progetto “ALBA – Albarella Laboratorio Diversità Ambiente” è un progetto Uni-Impresa del 2019 in cui l’Università di Padova collabora con l’Associazione Comunione dell’Isola di Albarella per un progetto di gestione sostenibile delle risorse dell’isola. L’obiettivo è di creare e mantenere nel tempo un ambiente antropizzato che si discosti il meno possibile dal suo corrispondente naturale tramite una forte riduzione delle emissioni di gas serra, come previsto dalle direttive UE. Il responsabile scientifico del progetto è il prof. Augusto Zanella, docente del Dipartimento Territorio e Sistemi Agro-Forestali dell’Università di Padova.

Link alla ricerca: https://journals.plos.org/climate/article?id=10.1371/journal.pclm.0000418

Titolo: Tackling climate change: the Albarella island example – «PLOS Climate» – 2024

Autori: Augusto Zanella, Cristian Bolzonella, Mauro Rosatti, Enrico Longo, Damien Banas, Ines Fritz, Giuseppe Concheri, Andrea Squartini, Guo-Liang Xu, Lingzi Mo, Daniele Mozzato, Claudio Porrini, Lucia Lenzi, Cristina Menta, Francesca Visentin, Marco Bellonzi, Giulia Ranzani, Debora Bruni, Matteo Buson, Daniele Casarotto, Michele Longo, Rebecca Bianchi, Tommaso Bernardon, Elisa Borella, Marco Ballarin, Vitaliy Linnyk, Patrizia Pengo, Marco Campagnolo, Karine Bonneval, Nils Udo, Vera Bonaventura, Roberto Mainardi, Lucas Ihlein, Allan Yeomans, Herbert Hager.

 

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE PUÒ ACCELERARE LA PRODUZIONE DI COMBUSTIBILI SOLARI: LO DIMOSTRA UNO STUDIO DEL POLITECNICO DI TORINO

Torino, 13 giugno 2024

La ricerca, pubblicata sulla rivista Journal of the American Chemical Society, potrebbe aprire le porte ad un nuovo modo di produrre combustibili solari per fronteggiare la crisi climatica

 

Un team di ricercatori del Politecnico di Torino, coordinato dal professor Eliodoro Chiavazzo – Ordinario di Fisica Tecnica Industriale e direttore dello SMaLL lab al Dipartimento Energia-DENERG – e composto da Luca Bergamasco e Giovanni Trezza – rispettivamente Ricercatore e Dottorando presso il Dipartimento Energia – con la collaborazione dei gruppi di ricerca del professor Erwin Reisner dell’Università di Cambridge (Gran Bretagna) e del professor Leif Hammarström dell’Università di Uppsala (Svezia), ha dimostrato come alcune tecniche di Intelligenza Artificiale possono essere utilizzate per accelerare i tempi di sviluppo dei sistemi di produzione dei combustibili solari.

Il procedimento studiato rappresenta un significativo passo in avanti nella produzione di combustibili solari – fonti energetiche rinnovabili ottenute a partire dalla CO2 sfruttando l’energia solare – fondamentali per ridurre le emissioni di CO2 in atmosfera e contribuire così alla lotta al cambiamento climatico.

Il nuovo studio, appena pubblicato sulla prestigiosa rivista Journal of American Chemical Society, dimostra come sia possibile migliorare l’attuale produzione di combustibili solari avvalendosi dell’Intelligenza Artificiale, e in particolare della tecnica denominata Apprendimento Sequenziale.

A suscitare l’interesse dei ricercatori sono infatti le potenzialità dei combustibili solari, capaci di ridurre l’anidride carbonica in atmosfera e allo stesso tempo di riutilizzarla per produrre risorse utili. Una fonte rinnovabile particolarmente promettente, la cui valorizzazione potrebbe contribuire a fronteggiare l’attuale crisi climatica e costruire un futuro più sostenibile.

Concentrandosi in particolare sulla produzione di monossido di carbonio (CO) – un combustibile utile anche come precursore per la produzione di altri combustibili più comuni, a partire dalla CO2 – il team di ricercatori ha dimostrato come alcune tecniche di Intelligenza Artificiale possono essere utilizzate per “guidare” gli esperimenti, accelerando quindi i tempi di sviluppo e migliorando notevolmente i procedimenti di produzione dei combustibili solari.

Il sistema oggetto dello studio si basa su un processo foto-chimico, nel quale una preparazione costituita da acqua, tensioattivi e opportune molecole funzionalizzanti in contatto con la CO2 viene esposta alla luce solare, attivando la conversione delle molecole di anidride carbonica in combustibile. Data la complessità del sistema, la sua ottimizzazione richiede un elevato numero di esperimenti e analisi in condizioni diverse – per esempio, diverse composizioni e diverse concentrazioni dei costituenti chimici.

“L’apprendimento sequenziale è un approccio in cui un modello apprende continuamente da nuovi dati che gli vengono forniti, e risulta particolarmente utile in contesti in cui i dati non sono disponibili tutti in una volta ma vengono raccolti progressivamente – spiega il professor Eliodoro Chiavazzo – I modelli quindi “imparano” da un primo set di pochi esperimenti, e sono in grado di fornire indicazioni su quali esperimenti conviene svolgere successivamente. Per il sistema in oggetto, i modelli proposti hanno consentito di ottimizzare la produzione di combustibile solare in soli 100 esperimenti rispetto ai 100,000 teoricamente necessari”.

“Per questo lavoro abbiamo usato due dei più recenti modelli di apprendimento sequenziale oggi a disposizione, coordinandoci con i ricercatori dell’università di Cambridge per lo svolgimento degli esperimenti e l’analisi dei risultati – commenta Giovanni Trezza – Lo studio ha permesso di identificare uno dei parametri chiave che regola il sistema foto-chimico considerato, altrimenti molto difficile da individuare”.

“Il sistema considerato per la riduzione della CO2 è di per sé molto innovativo, perché sfrutta l’auto-assemblamento dei tensioattivi e delle molecole funzionalizzanti in aggregati molecolari chiamati “micelle foto-catalitiche” – aggiunge Luca Bergamasco – che possono migliorare di molto la conversione della CO2 in combustibile. Il fatto di aver applicato l’intelligenza artificiale ad un sistema così complesso, ha quindi aggiunto un ulteriore elemento di valore all’approccio, consentendo di dimostrarne a pieno le enormi potenzialità”.

“Ad oggi, le tecniche di apprendimento sequenziale sono ancora relativamente poco sfruttate, soprattutto in ambito chimico; questo lavoro, in particolare, rappresenta il primo tentativo di applicarle ad un sistema foto-catalitico così complesso come quello considerato – concludono gli autori dello studio – La ricerca sull’applicazione di queste tecniche prosegue nell’ambito dei combustibili solari ma non solo, anche per altre applicazioni nel campo della conversione e dell’accumulo di energia”.

L’articolo è disponibile in modalità open access al seguente link: https://pubs.acs.org/doi/10.1021/jacs.4c01305

anidride carbonica
Foto di Gerd Altmann

Testo dall’Ufficio Web e Stampa del Politecnico di Torino.

LOTTA AL CAMBIAMENTO CLIMATICO: SCOPERTI NUOVI MATERIALI CAPACI DI CATTURARE L’ANIDRIDE CARBONICA CON LA TECNOLOGIA DAC 

Uno studio internazionale apre nuove prospettive sulla riduzione delle emissioni di CO2 nell’atmosfera, rimuovendo direttamente l’anidride carbonica già presente nell’aria.

 

Mercoledì 5 giugno è stato pubblicato sulla rivista Nature l’articolo Capturing carbon dioxide from air with charged-sorbents, frutto della collaborazione tra i ricercatori dell’Università di Torino e i ricercatori dell’Università di Cambridge (UK), dell’Università di Hong Kong (Cina) e dell’Università Cornell (US). Lo studio si è focalizzato su una delle nuove tecnologie più promettenti nella lotta contro il cambiamento climatico: la DAC (Direct Air Capture), la cattura diretta dell’anidride carbonica dall’aria. Si tratta di una tecnica innovativa che, anziché concentrarsi solo sulla riduzione delle emissioni alla fonte, mira a rimuovere direttamente l’anidride carbonica già presente nell’aria, indipendentemente dalla sua origine.

Il concetto alla base della DAC è relativamente semplice ma, allo stesso tempo, la sua implementazione tecnologica richiede un notevole investimento in ricerca e sviluppo. La tecnologia si basa su sistemi che aspirano l’aria, la filtrano attraverso sostanze chimiche o materiali specializzati che catturano l’anidride carbonica e rilasciano aria pulita. L’anidride carbonica catturata viene poi concentrata e stoccata in modo sicuro, o riutilizzata in processi industriali. Una tecnica in grado di rivoluzionare l’approccio alla gestione del carbonio nonostante i costi energetici ed economici siano ancora molto elevati.

Lo studio, condotto da Valentina Crocellà e Matteo Signorile, ricercatori del Dipartimento di Chimica UniTO nel gruppo di Chimica Fisica, mira a sviluppare una nuova classe di materiali efficienti e a basso costo, noti come “sorbenti-caricati”.

“Questi nuovi materiali – dichiara Valentina Crocellà – vengono preparati attraverso un processo di carica simile a quello di una batteria, accumulando ioni sulla superficie di carboni attivi a basso costo. Gli ioni inseriti hanno la capacità di catturare rapidamente l’anidride carbonica dall’aria, attraverso la formazione di specie chimiche, note come bi-carbonati. Ed è proprio questo uno dei punti di forza di questo nuovo materiale. Il rilascio dell’anidride carbonica può essere ottenuto a basse temperature (90-100°C) e la natura conduttiva del carbone stesso consente la rigenerazione diretta mediante un fenomeno noto come effetto Joule, utilizzando elettricità ottenuta da fonti rinnovabili”.

Uno degli aspetti cruciali per il successo della cattura diretta dell’anidride carbonica dall’aria è dunque l’ottimizzazione dei materiali utilizzati nei sistemi di cattura. Questi materiali devono essere altamente efficienti nella loro capacità di catturare e rilasciare anidride carbonica, energeticamente sostenibili ed economicamente convenienti. Nel caso specifico, l’utilizzo di tecniche sperimentali di caratterizzazione avanzata ha permesso di comprendere a fondo il meccanismo con cui l’anidride carbonica è catturata dal nuovo materiale, permettendo di porre le basi per lo sviluppo di altri “sorbenti-caricati”, con prestazioni ancora più elevate.

“Per ottenere le informazioni che ci eravamo prefissati – prosegue Matteo Signorile – abbiamo dovuto lavorare portando le strumentazioni presenti in laboratorio al loro limite, adattando la ricerca ai nuovi materiali che stavamo studiando. Una ricerca possibile anche grazie al supporto del progetto CH4.0 del Dipartimento di Chimica (MUR – Dipartimenti di Eccellenza 2023-2027) e del Consorzio Interuniversitario Nazionale per la Scienza e Tecnologia dei Materiali (INSTM). In un mondo che continua a fare i conti con livelli crescenti di emissioni di anidride carbonica, trovare soluzioni efficaci per ridurre la concentrazione di questo gas serra nell’atmosfera è diventato un imperativo. I nuovi materiali oggetto della pubblicazione su Nature potrebbero rappresentare una frontiera affascinante nella lotta contro il cambiamento climatico, offrendo speranza per un futuro in cui le emissioni di anidride carbonica potrebbero essere non solo ridotte, ma rimosse effettivamente dall’atmosfera”.

anidride carbonica
Foto di Gerd Altmann

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

Il geotermico è la rinnovabile più efficace per diminuire le emissioni di CO2 (seguono idroelettrico e solare)

Lo studio dell’Università di Pisa su 27 paesi OCSE dal 1965 al 2020 pubblicato sul Journal of Cleaner Production

Impianto ad energia geotermica di Nesjavellir in Islanda, che fornisce acqua calda all'area di Reykjavík
Impianto ad energia geotermica di Nesjavellir in Islanda, che fornisce acqua calda all’area di Reykjavík. Foto di Gretar Ívarsson, modificata da Fir0002, in pubblico dominio

Per diminuire le emissioni di CO2 nell’atmosfera, il geotermico è la fonte di energia rinnovabile più efficace, seguito da idroelettrico e solare. La notizia arriva da uno studio su 27 paesi OCSE dal 1965 al 2020 pubblicato sul Journal of Cleaner Production.

La ricerca ha analizzato l’impatto di alcune fonti di energia rinnovabile per la produzione di energia elettrica: geotermico, solare, eolico, biofuel, idroelettrico. Dai risultati è emerso che ognuna di esse contribuisce a ridurre le emissioni di CO2 e dunque è utile agli obiettivi della transizione ecologica. Fra tutte, le migliori sono il geotermico, l’idroelettrico, e il solare, in ordine decrescente di importanza. A livello quantitativo, 10 terawattora di energia elettrica prodotti da geotermico, idroelettrico, e solare, consentono infatti di ridurre le emissioni di CO2 pro capite rispettivamente di 1.17, 0.87, e 0.77 tonnellate.

I 27 paesi OCSE esaminati dal 1965 al 2020 sono stati scelti come campione perché contribuiscono notevolmente al rilascio di emissioni di CO2 nell’atmosfera e rappresentano circa un terzo del totale delle emissioni globali di CO2. Nello specifico si tratta di Australia, Austria, Canada, Cile, Cipro, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Islanda, Irlanda, Israele, Italia, Giappone, Messico, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Norvegia, Polonia, Portogallo, Corea del Sud, Spagna, Svezia, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti.

Per ricavare i dati, la ricerca ha analizzato molteplici fonti, le principali sono: Food and Agriculture Organization (FAO), International Energy Agency (IEA), OECD, Our World in Data (OWID), e World Bank.

“È noto che circa due terzi degli italiani si dichiara appassionato del tema della sostenibilità e ritiene importante l’uso delle rinnovabili per avere città più sostenibili  – dice Gaetano Perone, ricercatore del dipartimento di Economia e Management dell’Università di Pisa e autore dell’articolo – la mia analisi spiega in modo dettagliato l’impatto di ciascuna energia rinnovabile sulle emissioni di CO2, considerando anche altri aspetti legati ai costi di implementazione e costruzione delle centrali e delle opportunità date dalle caratteristiche geografiche e climatiche dei paesi considerati”.

Riferimenti bibliografici:

Gaetano Perone, The relationship between renewable energy production and CO2 emissions in 27 OECD countries: A panel cointegration and Granger non-causality approach, Journal of Cleaner Production,
Volume 434, 2024, 139655, ISSN 0959-6526, DOI: https://doi.org/10.1016/j.jclepro.2023.139655

Testo dall’Unità Comunicazione Istituzionale dell’Università di Pisa.

IL SALTO DELL’ACQUA – Pubblicato sulla rivista «Nature Communications» lo studio dell’Università di Padova che evidenzia che i corsi d’acqua montani rilasciano grandi quantità di gas serra in atmosfera.

Quando si parla di cambiamento climatico, il primo pensiero va alle emissioni di gas serra prodotte da attività antropiche e in particolare dai combustibili fossili. E se invece una parte considerevole di questi gas derivasse da una sorgente inaspettata come l’acqua? È quanto ha rilevato un gruppo di ricercatori dell’Università di Padova nello studio dal titolo “Steps dominate gas evasion from a mountain headwater stream” pubblicato su «Nature Communications», svolto nell’ambito del progetto europeo “DyNET: Dynamical River Networks” e coordinato dal prof. Gianluca Botter del dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale (ICEA).

Pochi sanno che – a scala regionale e globale – un rilevante quantitativo di anidride carbonica (circa 12 miliardi di quintali di carbonio all’anno, corrispondenti a oltre il 10% del totale) viene emesso in atmosfera dai fiumi, primi fra tutti i piccoli corsi d’acqua che solcano le regioni montane nel loro scorrere incessante verso il mare e gli oceani. I torrenti montani, infatti, risultano spesso sovrasaturi di CO2 e hanno una significativa capacità di scambio con l’atmosfera in ragione dell’elevata turbolenza della corrente idrica.

Il salto dell'acqua
i corsi d’acqua montani rilasciano grandi quantità di gas serra in atmosfera

Lo studio dell’Università di Padova ha però mostrato che le stime esistenti dei quantitativi di anidride carbonica rilasciati dalle acque dolci terrestri verso l’atmosfera potrebbero essere largamente sottostimate, poiché non hanno fino ad ora considerato in modo esplicito le emissioni localizzate in corrispondenza dei salti di fondo presenti nei torrenti montani. Nello specifico, i ricercatori hanno analizzato la Svizzera perché ricca di corsi d’acqua montani e perché soggetta a studi precedenti, quindi facile oggetto di confronto.

«Attraverso la ricerca abbiamo osservato che il frangimento del getto indotto dalle brusche discontinuità nella quota dell’alveo induce un significativo rilascio localizzato di gas in atmosfera favorito dalle bolle d’aria e dalla schiuma – le cosiddette “white waters” – che si formano a valle di ciascun salto. Le analisi svolte – afferma Gianluca Botter, primo autore dello studio – hanno sorprendentemente evidenziato che le emissioni gassose in corrispondenza dei salti di fondo sono in genere maggiori delle emissioni che avvengono in tutte le restanti parti del corso d’acqua, ossia in tutti i lunghi tratti continui senza salti che i fiumi incontrano nel loro complesso percorso verso il mare».

Gianluca Botter
Gianluca Botter

L’applicazione a scala regionale di questa scoperta ha dimostrato che, se si ricalcolasse la quantità di anidride carbonica emessa in atmosfera dai fiumi tenendo conto delle emissioni gassose in corrispondenza dei salti di fondo, la massa di CO2 evasa attraverso la totalità dei corsi d’acqua montani della Svizzera potrebbe aumentare da 3.5 fino a 9.6 kgC/m2/anno, quasi tre volte tanto le stime attuali.

Il risultato mette in discussione anche le stime esistenti a livello globale riguardanti le emissioni di CO2 dai corpi d’acqua dolce e pone nuove basi per lo studio del delicato equilibrio dei gas serra in atmosfera e del complesso ciclo del carbonio del nostro pianeta.

Link alla ricerca: https://www.nature.com/articles/s41467-022-35552-3

Titolo: Steps dominate gas evasion from a mountain headwater stream – «Nature Communications» – 2022

Autori: Gianluca Botter, Anna Carozzani, Paolo Peruzzo e Nicola Durighetto

Link al progetto europeo: https://www.erc-dynet.it/

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Padova

OLTRE IL 2% DELLE EMISSIONI GLOBALI DI GAS SERRA SONO CAUSATE DAI FERTILIZZANTI SINTETICI

Lo studio internazionale condotto dal team di ricerca dell’Università di Torino, dell’Università di Exeter e di Greenpeace

fertilizzanti azotati sintetici gas serra

I fertilizzanti azotati sintetici sono responsabili del 2,1% delle emissioni globali di gas serra, secondo una nuova ricerca pubblicata sulla rivista Scientific Reports e intitolata “Greenhouse gas emissions from global production and use of nitrogen synthetic fertilisers in agriculture”. A differenza dei fertilizzanti organici, che provengono da materiale vegetale o animale, i fertilizzanti sintetici sono prodotti dall’uomo con processi chimici. La produzione e il trasporto causano emissioni di carbonio, mentre l’uso agricolo di questi fertilizzanti porta al rilascio di protossido di azoto (N₂O), un gas serra 265 volte più potente dell’anidride carbonica (CO₂) nell’arco di un secolo.

Il team di ricerca – dei Laboratori di Ricerca dell’Università di Torino, dell’Università di Exeter e di Greenpeace – ha scoperto che la filiera dei fertilizzanti azotati sintetici è stata responsabile dell’emissione dell’equivalente di 1,13 gigatonnellate di CO₂ nel 2018. Si tratta di oltre il 10% delle emissioni globali prodotte dall’agricoltura e di una quantità superiore alle emissioni dell’aviazione commerciale nello stesso anno. I primi quattro emettitori – Cina, India, Stati Uniti e UE28 (Paesi dell’Unione Europea più il Regno Unito) – hanno rappresentato il 62% del totale.

“Non c’è dubbio che le emissioni di fertilizzanti azotati sintetici debbano essere ridotte, invece di aumentare, come attualmente previsto”, ha dichiarato la Dott.ssa Reyes Tirado, dei Laboratori di ricerca di Greenpeace. “Il sistema agroalimentare globale si affida all’azoto sintetico per aumentare la resa dei raccolti, ma l’uso di questi fertilizzanti è insostenibileLe emissioni potrebbero essere ridotte senza compromettere la sicurezza alimentare. In un momento in cui i prezzi dei fertilizzanti sintetici stanno salendo alle stelle, riflettendo la crisi energetica, ridurne l’uso potrebbe giovare agli agricoltori e aiutarci ad affrontare la crisi climatica”.

Quando i fertilizzanti azotati vengono applicati al suolo, una parte viene assorbita dalle piante e una parte viene utilizzata dai microrganismi del suolo, che producono N₂O come sottoprodotto del loro metabolismo. L’azoto può anche finire per lisciviare dal sito. Secondo i ricercatori, la strategia più efficace per ridurre le emissioni è quella di ridurre l’eccesso di fertilizzazione, che attualmente si verifica nella maggior parte dei casi.  

“Abbiamo bisogno di un programma globale per ridurre l’uso complessivo dei fertilizzanti e aumentare l’efficienza del riciclo dell’azoto nei sistemi agricoli e alimentari”, ha dichiarato il Dott. Stefano Menegat, dell’Università di Torino. “Possiamo produrre cibo a sufficienza per una popolazione in crescita con un contributo molto minore alle emissioni globali di gas serra, senza compromettere le rese”.

Il cambiamento dei modelli alimentari verso una riduzione della carne e dei prodotti lattiero-caseari potrebbe svolgere un ruolo centrale. Tre quarti dell’azoto della produzione vegetale (espresso in termini di proteine e compresi i sottoprodotti della bioenergia) sono attualmente destinati alla produzione di mangimi per il bestiame a livello globale.

I dati dello studio, relativi al 2018, mostrano che il Nord America ha il più alto utilizzo annuale di fertilizzanti azotati per persona (40 kg), seguito dall’Europa (25-30 kg). L’Africa ha registrato il consumo più basso (2-3 kg). Il team di ricerca ha sviluppato il più grande set di dati disponibili a livello di campo sulle emissioni di N₂O nel suolo. Sulla base di questi dati, ha stimato i fattori di emissione diretta di N₂O a livello nazionale, regionale e globale, mentre ha utilizzato la letteratura esistente per trovare i fattori di emissione per le emissioni indirette di N₂O nel suolo e per la produzione e il trasporto di fertilizzanti azotati.

 

Testo e foto dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino

Mobilità elettrica e home working riducono l’inquinamento urbano
Trasformando solo l’1% dei veicoli più inquinanti in elettrici, la riduzione delle emissioni sarebbe pari a quella ottenuta convertendo in elettrico il 10% di veicoli scelti casualmente. È uno dei risultati della ricerca, pubblicata su Nature Sustainability, condotta da Cnr-Isti e Sapienza Università di Roma nelle città di Firenze, Roma e Londra.

Roma inquinamento mobilità elettrica home working
Mobilità elettrica e home working riducono l’inquinamento urbano. Nella foto, traffico nella città di Roma, una delle tre città coinvolte nello studio. Foto di wal_172619

Quanto e cosa, gli individui che vivono in un’area urbana, respirano quotidianamente dipende da diversi fattori, ed è variabile nello spazio e nel tempo. Così come è molto variabile la responsabilità, delle auto, per quelle stesse emissioni a cui le persone sono esposte.

Alcune strade delle città, sono più inquinate di altre, e alcuni veicoli privati inquinano più di altri.

Lo studio dei ricercatori dell’Istituto di scienza e tecnologie dell’informazione del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isti) in collaborazione con il Dipartimento di ingegneria informatica, automatica e gestionale (Diag) della Sapienza Università di Roma ha evidenziato come in città come Roma e Firenze, ma anche a Londra, il 10% delle strade più inquinate può arrivare ad “ospitare” quasi il 60% delle emissioni veicolari di tutta la città, e, allo stesso modo, il 10% dei veicoli più inquinanti può arrivare ad essere responsabile per ben più della metà delle emissioni.

La ricerca sottolinea inoltre che rendendo elettrico anche solo l’1% dei veicoli privati più inquinanti in un centro urbano, la conseguente riduzione delle emissioni di CO2 sarebbe pari a quella ottenuta se una quantità 10 volte maggiore di veicoli scelti a caso fossero elettrici. Risultati analoghi si ottengono dall’applicazione dell’home working mirato ad evitare i viaggi sistematici casa-lavoro di una porzione della popolazione.

“Si tratta di una evidenza scientifica di quanto sia importante compiere scelte che siano informate”, commenta Mirco Nanni, ricercatore di Cnr-Isti che ha condotto lo studio e direttore del Kdd-Lab. “Misure come le cosiddette targhe alterne, ancora in voga fino a pochi anni fa, sono incredibilmente meno efficaci di politiche di riduzione delle emissioni che compiano invece scelte mirate, come i più recenti divieti alla circolazione dei veicoli particolarmente inquinanti, o eventuali incentivi all’elettrico, che dovrebbero, però, essere concepiti per chi inquina di più”.

Ma chi inquina di più? Si possono individuare dei comportamenti di mobilità, adottati con le nostre auto, che causano maggiori emissioni? “Dal nostro lavoro emerge che chi si sposta in modo più prevedibile, come nel tragitto casa-lavoro, è responsabile di una maggiore fetta di emissioni di chi ha, invece, un comportamento di mobilità più erratico ed imprevedibile”, spiega Luca Pappalardo ricercatore del Cnr-Isti e coordinatore dello studio.

Questo tipo di ricerche possono essere di aiuto ai decisori politici.

“Nel concepire politiche di riduzione delle emissioni veicolari che siano veramente efficaci e riescano, così, ad avere un impatto positivo sulle nostre città, bisogna conoscere il fenomeno in modo approfondito”, conclude Matteo Böhm, dottorando della Sapienza e autore dello studio. “Solo con scelte informate, infatti, si può ‘sapere dove colpire’, ed arrivare così ad ottenere il massimo risultato. La nostra speranza è che studi come questo possano aiutare a raggiungere questo obiettivo”.

Riferimenti:
Gross polluters and vehicles’ emissions reduction – Matteo Böhm, Mirco Nanni, Luca Pappalardo – Nature Sustainability (2022) https://doi.org/10.1038/s41893-022-00903-x

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

I CAMBIAMENTI CLIMATICI POTREBBERO CAUSARE L’ESTINZIONE DELLE SALAMANDRINE

Foto di G. Bruni

Uno studio appena pubblicato su Scientific Reports di Nature dai paleontologi dell’Università di Torino e dell’Istituto Catalano di Paleontologia Miquel Crusafont ha messo in luce le potenziali connessioni tra i cambiamenti climatici del passato e le cause della scomparsa in gran parte d’Europa delle salamandrine, che oggi rappresentano l’unico genere di vertebrato esclusivo della Penisola Italiana. I cambiamenti climatici previsti per i prossimi decenni a causa delle crescenti emissioni di CO2 e altri gas serra potrebbero causarne l’estinzione definitiva.

Un gruppo di paleontologi del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino e dell’Istituto Catalano di Paleontologia Miquel Crusafont, in un recente studio pubblicato su Scientific Reports di Nature, ha indagato le variabili climatiche in cui vivono le salamandrine e come queste si possano relazionare alle condizioni del passato e del futuro. I fossili sono l’unico strumento a disposizione dei ricercatori e delle ricercatrici per avere accesso diretto al passato e capire come gli organismi abbiano reagito ai diversi cambiamenti a cui è andata incontro la Terra. Il gruppo di ricerca di paleontologia dell’Università di Torino si occupa da molti anni di capire ciò che il record fossile del passato ci può insegnare sugli organismi attuali. Nel caso delle salamandrine, i fossili ci raccontano che questi animali, che oggi si trovano esclusivamente nell’Italia appenninica con due specie, in un periodo compreso tra circa 20 e 5 milioni di anni fa abitavano molte altre aree d’Europa, sparse tra Germania, Grecia, Spagna e Ungheria. 

Salamandrine cambiamenti climatici

Le analisi effettuate dal gruppo di lavoro, basate su metodi di modellizzazione della nicchia ecologica, hanno evidenziato che durante i cicli di glaciazione degli ultimi milioni di anni, il clima della maggior parte dell’Europa non era adatto alle salamandrine, ed è plausibile che i cambiamenti climatici avvenuti in questo intervallo di tempo ne abbiano causato l’estinzione da tutta l’Europa a esclusione dell’Italia peninsulare. Nello stesso tempo, le proiezioni sui modelli climatici futuri, sotto diversi scenari di riduzione di emissioni di CO2, hanno messo in luce una drastica riduzione dell’idoneità climatica per le salamandrine anche all’interno della nostra penisola nei prossimi 50 anni.

 
“Sebbene le salamandrine non siano ancora inserite tra gli organismi a rischio di estinzione, dovremmo avere un particolare occhio di riguardo per questo piccolo anfibio che rappresenta un’inestimabile ricchezza del patrimonio naturalistico italiano” sottolinea Loredana Macaluso, attualmente ricercatrice al Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino e primo autore dell’articolo.
“Non solo questa salamandra rappresenta l’unico genere di vertebrato endemico della Penisola Italiana, ma è anche un animale unico a livello mondiale sia per quanto riguarda il suo aspetto colorato, sia per quanto riguarda il suo particolare comportamento. Ricordiamoci che questo abitante del sottobosco italiano è una delle poche salamandre del mondo a mostrare il cosiddetto unkenreflex, un comportamento con cui mostra l’accesa colorazione di ventre, zampe e coda per intimorire i predatori, ed è l’unica al mondo attualmente nota per essere in grado di alzarsi sulle zampe posteriori e assumere una posizione bipede in determinate circostanze”. 
 
Questo contributo alla paleobiologia della conservazione rappresenta uno dei primi tentativi di collegare in modo diretto ciò che il record fossile ci testimonia e il futuro degli anfibi viventi, che sono in grave pericolo a causa dei cambiamenti climatici che stiamo inducendo tramite un utilizzo sconsiderato delle tecnologie a nostra disposizione, mostrando ancora una volta l’importanza di provvedimenti su larga scala per ridurre in modo più rapido possibile le emissioni di CO2.
Salamandrine salamandrina cambiamenti climatici
Foto di G. Bruni
 
Gli altri autori dell’articolo sono Andrea Villa, attualmente ricercatore post-doc presso l’Istituto Catalano di Paleontologia Miquel Crusafont di Barcellona, il Prof. Giorgio Carnevale e il Prof. Massimo Delfino, coordinatore del progetto, entrambi afferenti all’Università di Torino.
Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino