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Da Napoli lo studio dell’equipe della Diabetologia della Federico II pubblicato su “Advances in Nutrition”

Mangiare pesce fa bene al cuore? Sì, ma solo se è grasso!

Il consumo di pesce azzurro, anche detto pesce grasso, riduce il rischio di malattie cardiovascolari e di mortalità precoce, mentre il pesce bianco, identificato come pesce magro, non ha lo stesso potenziale.

Importante l’impatto che la ricerca avrà sulle scelte alimentari della popolazione adulta e sull’ecosistema marino.

acciughe pesce cuore
Mangiare pesce fa bene al cuore? Acciuga europea o alice (Engraulis encrasicolus). Acciughe fotografate nel Mar Ligure. Foto di Alessandro Duci, caricata da Massimiliano Marcelli, in pubblico dominio

Chi di noi, rivolgendosi ad un esperto, non ha ricevuto l’indicazione di consumare pesce almeno tre volte a settimana? Ebbene, da oggi qualcosa potrebbe cambiare.

Se, infatti, numerosi studi hanno dimostrato che il consumo di pesce si associa alla riduzione del rischio di malattie cardiovascolari ischemiche, come l’infarto del miocardio, sino ad ora nessuno aveva chiarito se i tipi di pesce fossero intercambiabili o se fosse meglio preferire le alici alla spigola, le sardine ai gamberi, in sintesi se fosse meglio il pesce azzurro, anche detto pesce grasso o il pesce bianco, noto come pesce magro.

La risposta è arrivata dallo studio dell’equipe della Diabetologia del Policlinico Federico II, guidata dalla professoressa Olga Vaccaro, che ha analizzato tutti i dati disponibili in letteratura sulla relazione tra il consumo di pesce e le malattie cardiovascolari.

Utilizzando una metodologia basata sulla sistematicità della ricerca, grazie a procedure statistiche in grado di combinare tutti i dati disponibili, abbiamo analizzato una popolazione di 1,320,509 individui, seguiti per un periodo di tempo che va dai 4 ai 40 anni. I risultati hanno mostrato, con estrema chiarezza, che il consumo di 1-2 porzioni di pesce grasso a settimana si associa ad una riduzione significativa del rischio di infarto e di altre patologie cardiache che, per i casi fatali, si colloca intorno al 17%. Al contrario, il consumo abituale di pesce magro, pur non aumentando il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari, non si associa a questi benefici”, spiega la professoressa Vaccaro.

Vale a dire che il consumo di pesce grasso, come sardine, sgombri ed altri pesci azzurri, riduce il rischio di malattie cardiovascolari e di mortalità precoce, mentre il pesce magro, come merluzzo, spigola, crostacei, molluschinon ha lo stesso potenziale.

I risultati di questo studio mettono in luce, per la prima volta, che l’effetto benefico sulla salute cardiovascolare attribuito finora al consumo di pesce in generale è in realtà limitato esclusivamente al pesce grasso. Questo ha una sua logica: il pesce grasso contiene, infatti, quantità fino a 10 volte più elevate di grassi cosiddetti omega-3, benefici per la salute, rispetto al pesce magro, inoltre, il pesce grasso è più ricco di molte altre sostanze salutari come calcio, potassio, ferro e Vitamina D, che possono contribuire all’impatto benefico del pesce azzurro sul cuore”, sottolinea il professore Gabriele Riccardi, già direttore della Diabetologia Federiciana.

Le conclusioni dello studio avranno implicazioni rilevanti per le scelte alimentari della popolazione adulta e per la preservazione dell’ecosistema marino.

La consapevolezza che bastano una o due porzioni di pesce azzurro a settimana per ridurre marcatamente il rischio di malattie cardiache facilita l’adesione alle raccomandazioni nutrizionali in confronto al generico consiglio di consumare ogni tipo di prodotto della pesca con una frequenza maggiore. Guardando agli aspetti ambientali, la scelta preferenziale di pesce azzurro di piccola taglia, e con un breve ciclo di vita come alici, sardine, sgombri, aringhe e molti altri pesci meno noti ma molto diffusi nel mar Mediterraneo, ha un impatto rilevante sull’ecosistema marino ed è molto più sostenibile dell’utilizzo di specie, ritenute più pregiate, che arrivano sulla nostra tavola grazie all’acquacultura o alla pesca intensiva”, conclude la professoressa Vaccaro.

All’innovativo studio, insieme ai professori Vaccaro e Riccardi, hanno preso parte le nutrizioniste Marilena Vitale e Ilaria Calabrese, la dottoranda di ricerca in “Nutraceuticals Functional Foods and Human Health” Annalisa Giosuè e la diabetologa Roberta Lupoli.

Testo dall’Ufficio Stampa Università Federico II di Napoli.

L’effetto di Internet sul capitale sociale

Uno studio internazionale condotto da un ricercatore della Sapienza in collaborazione con le Università di Cardiff, Louvain e Pavia, mostra che la penetrazione della banda larga ha causato una diminuzione dell’impegno e della partecipazione civica e politica, senza però compromettere le relazioni con parenti e amici.

Internet capitale sociale banda larga partecipazione sociale
Foto di Sumanley xulx

Sono numerosi gli studi che documentano che gli indicatori di fiducia, partecipazione civica e interazioni sociali sono in declino in molti paesi almeno a partire dalla seconda metà degli anni 1990.

La pandemia da Coronavirus ha messo ulteriormente a dura prova le relazioni interpersonali. Da due anni il distanziamento sociale ostacola molte forme di partecipazione alla vita pubblica, minando la fiducia nelle istituzioni e la coesione sociale e incrementando una fase di per sé già difficile per il capitale sociale in Europa.

Alcuni autori hanno attribuito il declino iniziale del capitale sociale in Europa all’uso sempre più pervasivo della televisione. Sembra plausibile che l’effetto di Internet, un mezzo di comunicazione più interattivo della televisione e in grado di fornire contenuti on demand, possa essere stato ancora più forte. Questa possibilità è stata indagata da un team internazionale di ricercatori formato da Fabio Sabatini del Dipartimento di Economia e diritto della Sapienza[MOU1] , Andrea Geraci (Università di Pavia), Mattia Nardotto (KU Leuven) e Tommaso Reggiani (Cardiff University), che si sono chiesti se il tempo speso online possa spiazzare la nostra partecipazione politica e sociale, rendendoci più concentrati su noi stessi e meno disponibili a preoccuparci del benessere della comunità in cui viviamo.

Per rispondere a questa domanda, i ricercatori hanno combinato informazioni sulla topologia della vecchia rete telefonica del Regno Unito con dati campionari geolocalizzati raccolti annualmente dal 1998 al 2018 dall’Institute for Social and Economic Research, mostrando in che misura l’uso di Internet ad alta velocità ha colpito varie dimensioni del capitale sociale: mentre la partecipazione civica e politica sono più vulnerabili alla pressione dei nuovi media sulle scelte di allocazione del tempo degli utenti, le relazioni con i familiari e gli amici sembrano invece in  grado di resistere all’impatto delle nuove tecnologie della comunicazione. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Journal of Public Economics.

L’analisi empirica ha dimostrato in particolare come le attività orientate al bene comune che richiedono un significativo dispendio di tempo, quali il coinvolgimento nelle iniziative delle associazioni volontarie (capitale sociale di tipo bridging) abbiano risentito maggiormente dell’effetto “spiazzamento” della banda larga. L’effetto è statisticamente significativo e di dimensioni rilevanti. Una riduzione di 1,8 km della distanza tra l’abitazione e il nodo della rete telefonica più vicino, corrispondente a un significativo aumento della velocità della connessione, ha causato una diminuzione della probabilità di partecipare ad attività associative del 4,7% tra il 2005 e il 2017. Per le associazioni di volontariato, la probabilità di partecipare si è ridotta del 10,3%. Nel caso dei partiti politici, l’accesso alla banda larga ha causato una riduzione della probabilità di partecipazione del 19%.

L’effetto spiazzamento non ha intaccato invece le relazioni con i familiari e gli amici (forma di capitale sociale di tipo bonding) basate sui legami già esistenti, che tendono a rafforzare l’attenzione degli individui su obiettivi particolaristici.

“È un risultato poco confortante che, con la dovuta cautela, potrebbe fornire una chiave di interpretazione di fenomeni sociali recenti come il crescente distacco del pubblico dalla politica” – commenta Fabio Sabatini. “Tuttavia, l’evidenza empirica osservata nel Regno Unito non è necessariamente valida ovunque: l’impatto economico e sociale della penetrazione della banda larga potrebbero variare in base allo stock iniziale di capitale sociale, al contesto istituzionale e all’uso che gli utenti fanno della rete veloce”.

Riferimenti:

Broadband Internet and social capital – Andrea Geraci, Mattia Nardotto, Tommaso Reggiani, Fabio Sabatini – Journal of Public Economics  https://doi.org/10.1016/j.jpubeco.2021.104578

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

La Scuola IMT e Nemesys avviano un progetto di ricerca e sviluppo per i materiali e le tecnologie della filiera dell’idrogeno

materiali tecnologie filiera dell'idrogeno
Marco Paggi, ordinario in Scienza delle Costruzioni e direttore dell’unità di ricerca Musam della Scuola IMT Alti Studi Lucca

Lucca 3 febbraio 2022 – Entra nel vivo la collaborazione tra l’unità di ricerca Musam -Multi-Scale Analysis of Materials – della Scuola IMT Alti Studi Lucca e Nemesys, la startup di cui la multinazionale Baker Hughes ha appena acquisito la quota del 30%.

La collaborazione tra la Scuola IMT Alti Studi Lucca e Nemesys, startup con sedi a Firenze e Pontedera (Pisa) avviata ad ottobre 2021 prevede un progetto di ricerca sui materiali e le tecnologie della filiera dell’idrogeno. In particolare, l’unità di ricerca guidata da Marco Paggi si occuperà della ingegnerizzazione e dello sviluppo di prototipi e di tutta la fase che va dal prodotto di laboratorio a uno pressoché pronto per la commercializzazione.

Particolarmente gradita dunque, la notizia odierna dell’entrata di Baker Hughes in Nemesys, un importante riconoscimento da parte di un player internazionale di grande rilievo per la Toscana.

“Le sfide scientifiche sul tema dell’idrogeno – commenta Marco Paggi, ordinario in Scienza delle Costruzioni e direttore dell’unità di ricerca Musam della Scuola IMT – dalla produzione allo stoccaggio, sono un chiaro esempio di ricerca di frontiera con impatto atteso su energia e trasporti, temi caldi per la società. La Scuola IMT è lieta di poter collaborare con una startup che si impegna nel sviluppare soluzioni tecnologiche chiave per il settore industriale.”

Il professor Paggi desidera anche ringraziare Emilio Paolo Vasciminno, private banker, per la sua attività di open innovation che ha portato ad avviare la collaborazione scientifica tra Nemesys e la Scuola IMT.

Testo e foto dall’Ufficio Comunicazione ed Eventi Scuola IMT Alti Studi Lucca sul nuovo progetto di ricerca e sviluppo per materiali e tecnologie della filiera dell’idrogeno.

STUDIO DI UNITO IN COLLABORAZIONE CON TOKAI UNIVERSITY APRE NUOVE FRONTIERE PER IL TRATTAMENTO DELLE MALATTIE RARE 

La ricerca utilizza modelli computerizzati di proteine generati con AlphaFold, la più recente e rivoluzionaria tecnologia di intelligenza artificiale, per verificare la fattibilità e pianificare rapidamente una strategia terapeutica personalizzata per pazienti pediatrici affetti da una malattia genetica rara (IAHSP), caratterizzata da grave spasticità agli arti. Pubblicato dal Drug Discovery Today, il lavoro supporta HelpOlly, onlus torinese nata per trovare una cura a una bambina di 4 anni affetta da IAHSP.

Studio dell’Università di Torino in collaborazione con Tokai University apre nuove frontiere per il trattamento delle malattie rare. Immagine di Joseluissc3CC BY-SA 4.0

Una ricerca realizzata dal gruppo di ricerca CASSMedChem del Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute dell’Università degli Studi di Torino — specializzato nella chimica farmaceutica —, in collaborazione con il Department of Molecular Life Sciences della Tokai University in Giappone, ha individuato un metodo innovativo per chiarire a livello molecolare l’effetto delle mutazioni alla base delle malattie genetiche rare. Lo studio, che si focalizza su una forma ultra-rara di paralisi spastica di origine genetica chiamata IAHSPè stato pubblicato dalla rivista scientifica Drug Discovery Today di Elsevier.

Attraverso l’utilizzo di AlphaFoldDB, un database di strutture proteiche 3D costruite con sistemi basati su reti neurali, i ricercatori sono riusciti a ottenere alcuni modelli di varianti mutate della proteina (alsina) responsabile della patologia, tipiche di ogni paziente affetto da IAHSP. La validità dei modelli proposti è stata verificata tramite una serie di dati sperimentali forniti dal prof. Shinji Hadano in Giappone, noto esperto di alsina e delle patologie correlate. In pratica, lo studio permette di visualizzare e ispezionare le strutture dell’alsina, delle sue varianti patogene e di analizzarle con strumenti di modellizzazione molecolare, spesso online e liberamente accessibili. La strategia proposta dai ricercatori di UniTo si è dimostrata relativamente semplice, in grado di fornire un guadagno di conoscenza in tempi brevi e con impiego limitato di risorse.

Lo studio, intitolato AI-based protein structure databases have the potential to accelerate rare diseases research: AlphaFoldDB and the case of IAHSP/Alsin, è firmato da Matteo Rossi SebastianoGiuseppe ErmondiShinji Hadano e Giulia Caron e supporta una Onlus torinese, HelpOllynata per trovare una cura per Olivia, una bambina di 4 anni affetta da IAHSP e in lotta contro il tempo per combattere la grave forma di spasticità degenerativa che l’ha colpita. I risultati ottenuti, pertanto, si inseriscono in uno specifico programma di drug discovery.

Nel corso dello studio sono stati analizzati 7 casi clinici di IAHSP. I modelli tridimensionali delle corrispondenti proteine mutate e una serie di strumenti computazionali hanno permesso di comprendere i meccanismi patogenetici di ogni singola mutazione. Approcciare questi casi clinici solo con metodi sperimentali tradizionali avrebbe richiesto anni e ingenti fondi, mentre con questo procedimento si può analizzare la situazione di ogni singolo paziente in poco tempo, delegando alla dimostrazione sperimentale, ovviamente necessaria, solo la conferma finale.

Questo tipo di strategia verificata per la IAHSP è trasferibile ad altre malattie genetiche. Secondo gli autori, integrare quest’approccio nel processo diagnostico, a valle dell’analisi genetica, permetterebbe di comprendere immediatamente i meccanismi patogenetici, valutare la fattibilità di un intervento farmacologico e accelerare la ricerca di una cura personalizzata per ogni paziente.

trattamento malattie genetiche rare
Studio dell’Università di Torino in collaborazione con Tokai University apre nuove frontiere per il trattamento delle malattie rare. Foto di PixxlTeufel (Micha)

Spesso siamo portati a pensare all’intelligenza artificiale come a qualcosa di futuristico e lontano— sottolinea Matteo Rossi Sebastiano, ricercatore del gruppo CassMedChem, Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute di UniTo — ma è fondamentale comprendere come l’applicazione di tali strumenti nel campo della Salute, rappresenti in realtà una rivoluzione in atto, un alleato prezioso e dagli effetti sempre più concreti. Fino a qualche mese fa era inimmaginabile poter dare una “faccia” alla maggior parte delle proteine, men che meno studiarne le varianti patologiche rare. Oggi possiamo, nell’arco di qualche settimana, gettare le basi per strategie terapeutiche personalizzate. Non a caso, la prestigiosa rivista Nature ha definito AlphaFold come metodo dell’anno. È un orgoglio che UniTo sia tra le prime università a fare ricerca con AlphaFold”.

“Le proteine sono macromolecole che garantiscono il corretto funzionamento delle cellule. In molti casi basta la sostituzione di un singolo aminoacido dovuto a una mutazione nel DNA per compromettere il funzionamento di una proteina e della intera cellula. Pertanto — aggiunge Giuseppe Ermondi, docente di Chimica Farmaceutica, Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze pe la Salute di UniTo — è di fondamentale importanza la conoscenza della struttura proteica a livello atomico. Non a caso gli sviluppatori di tutte le principali tecniche di determinazione sperimentale della struttura delle proteine sono stati insigniti del premio Nobel (la crio-microscopia elettronica nel 2018, la risonanza magnetica nucleare nel 2002 e la cristallografia nel lontano 1962). Quando non è possibile ottenere delle strutture sperimentali ci vengono in aiuto alcune tecniche computazionali di predizione della struttura delle proteine. Nel 2013, ancora una volta il premio Nobel ha premiato gli sviluppatori di tecniche di calcolo basate sulla dinamica molecolare che permettono di studiare il comportamento delle proteine e dei loro mutanti a partire dalla struttura a livello atomico.”

Il primo passo per trovare un trattamento farmacologico verso una malattia genetica consiste nell’ottenere un modello computazionale ragionevole della struttura chimica della proteina responsabile della patologia — spiega Giulia Caron, docente di Chimica Farmaceutica, Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze pe la Salute di UniTo e coordinatrice dello studio — Questo passaggio può essere complesso e scoraggiare ulteriori studi soprattutto per quelle malattie in cui i casi clinici sono pochi e uno diverso dall’altro. D’altro canto, come ricercatori di UniTo, abbiamo il dovere di utilizzare tutti gli strumenti e le competenze a nostra disposizione per dare speranza ai pazienti e ai loro familiari. Ci siamo quindi concentrati sulla tecnologia AlphaFold (disponibile solamente da fine luglio 2021) e l’abbiamo applicata alla coppia alsina/IAHSP per provare a dare qualche prima risposta concreta alla HelpOlly. Con questo studio abbiamo dimostrato che la IAHSP nella forma di Olivia è quantomeno potenzialmente trattabile da un punto di vista farmacologico e pertanto abbiamo applicato una procedura computazionale di drug discovery e individuato una molecola molto promettente per il trattamento della patologia di Olivia. A questo punto però i computer non bastano più e quindi sono in corso una serie di validazioni sperimentali sia dal prof. Hadano in Giappone, sia in altri Dipartimenti dell’Università degli Studi di Torino”.

 

Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino sul nuovo studio relativo al trattamento delle malattie rare.

SCOPERTA UNA NUOVA CAUSA DI RISCHIO DI METASTASI DEL TUMORE AL SENO
IN UNO STUDIO DEL CENTRO BIOTECH DELL’UNIVERSITÀ DI TORINO

causa rischio metastasi tumore al seno
Foto di StockSnap

Il cancro al seno è il tumore più diffuso e una delle principali cause di mortalità nelle donne in tutto il mondo. Sebbene la diagnosi precoce e l’intervento terapeutico migliorino significativamente il tasso di sopravvivenza delle pazienti, l’insorgenza di metastasi nelle fasi avanzate della malattia, rappresenta ancora la causa principale dei decessi. I risultati di uno studio, condotto presso il Centro di Biotecnologie Molecolari dell’Università di Torino, hanno evidenziato come, in una casistica di oltre 2000 pazienti con tumore al seno, l’aumentata espressione della proteina PI3K-C2a sia direttamente correlata a un aumento del rischio di metastatizzazione del tumore primario. I dati sono pubblicati sulla rivista internazionale Advanced Science (impact factor 2020 = 16.8).

Dal punto di vista funzionale, l’aumentata l’attività lipide-chinasica della proteina PI3K-C2a sarebbe in grado di indurre un cambiamento nella struttura delle cellule tumorali, promuovendo l’insorgenza di caratteristiche pro-migratorie. In questo modo, la cellula tumorale diventa capace di “staccarsi” dalla massa tumorale primaria. Muovendosi all’interno del sistema circolatorio, può quindi aumentare l’infiltrazione dei tessuti e la generazione di formazioni metastatiche.

L’aspetto innovativo dello studio, sostenuto prevalentemente da Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro, è stata l’individuazione del meccanismo molecolare che permette alle cellule di migrare e metastatizzareFederico GulluniHuayi Li e Lorenzo Prever, ricercatori del laboratorio del Prof. Emilio Hirsch, hanno evidenziato come la cascata di segnalazione intracellulare attivata da elevati livelli di PI3K-C2a porti all’inattivazione funzionale di uno dei principali regolatori della migrazione cellulare, la proteina R-RAS. In particolar modo, è stato possibile dimostrare, grazie all’utilizzo di modelli murini e pesci zebra, come l’utilizzo di un inibitore selettivo, capace di limitare il funzionamento della proteina PI3K-C2a, sia in grado di bloccare il processo migratorio e invasivo delle cellule di tumore al seno. I dati ottenuti in laboratorio saranno ora da confermare in ulteriori studi preclinici e clinici.

Emilio Hirsch cause invecchiamento
Emilio Hirsch

Testo e foto del prof. Emilio Hirsch dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino sulla scoperta una nuova causa di rischio metastasi del tumore al seno.

 

Biomarcatori definiscono la fitness immunologica necessaria per la risposta clinica all’immunoterapia dei pazienti oncologici 

L’analisi di una specifica sottopopolazione di cellule del sistema immunitario consente di individuare meglio i pazienti che beneficeranno maggiormente dei trattamenti immunologici e di predire l’esito clinico della terapia. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Clinical Cancer Research.

biomarcatori immunoterapia
Biomarcatori definiscono la fitness immunologica necessaria per la risposta clinica all’immunoterapia dei pazienti oncologici. Foto di Konstantin Kolosov

Negli ultimi anni l’utilizzo di terapie basate sull’inibizione di molecole regolatrici di processi chiave del sistema immunitario (Immune Checkpoint) ha completamente cambiato il percorso terapeutico e la prognosi di pazienti affetti da cancro. In particolare, sono stati sviluppati anticorpi monoclonali capaci di legarsi in maniera specifica ad alcune cellule del sistema immunitario (in particolar modo ai linfociti T) e di bloccare l’interazione con le proteine presenti sulla superficie del tumore, permettendo una riattivazione e una amplificazione della risposta anti-tumorale.

L’introduzione di queste terapie (come l’immunoterapico anti-PD1), ha messo in evidenza quanto sia importante capire il livello del benessere del sistema immunitario dei pazienti che si sottopongono a tali trattamenti per predirne l’esito clinico.

Uno studio pubblicato sulla rivista Clinical Cancer Research e condotto dal Laboratorio di Immunologia dei tumori e terapie cellulari del Dipartimento di Medicina sperimentale della Sapienza Università di Roma, dall’Unità di Oncologia B e dal Dipartimento di Radiologia, oncologia e patologia del Policlinico Umberto I, in collaborazione con il Dipartimento di Oncologia del Policlinico Universitario Agostino Gemelli, ha dimostrato che la frequenza di un sottogruppo di cellule immunitarie, i linfociti CD137+, è in grado di definire i livelli di wellness del sistema immunitario del paziente oncologico e la sua capacità di rispondere all’immunoterapia.

Il gruppo di ricerca multidisciplinare, coordinato da Chiara Napoletano e Marianna Nuti del Dipartimento di Medicina sperimentale della Sapienza, ha dimostrato e validato che la frequenza dei linfociti T circolanti CD137+, analizzati prima dell’inizio del trattamento di immunoterapia, può essere considerato un marcatore di benessere del sistema immunitario, in grado di predire l’esito clinico della terapia, indipendentemente dal tipo di tumore e dal numero di terapie precedenti a cui il paziente oncologico è stato sottoposto.

“I pazienti con una elevata percentuale di linfociti T CD137+ nel sangue presentano una progressione libera da malattia e una sopravvivenza significativamente più alta rispetto ai pazienti che hanno in circolo livelli più bassi di queste cellule – spiega Chiara Napoletano. “Inoltre, associando la frequenza di questi linfociti con altri due parametri clinici, quali il sesso e lo stato clinico obiettivo (performance status) è stato possibile definire il profilo del paziente oncologico che meglio beneficerà dell’immunoterapia anti-PD1 in termini di sopravvivenza”.

L’analisi di questa sottopopolazione linfocitaria permetterà di migliorare la selezione dei pazienti che si sottoporranno ai trattamenti immunologici e di predire l’esito clinico della terapia permettendo agli oncologi di effettuare la migliore scelta terapeutica per il paziente.

Riferimenti:

Circulating CD137 + T cells correlate with improved response to anti-PD1 immunotherapy in cancer patients – Ilaria Grazia Zizzari, Alessandra Di Filippo, Andrea Botticelli, Lidia Strigari, Angelina Pernazza, Emma Rullo, Maria Gemma Pignataro, Alessio Ugolini, Fabio Scirocchi, Francesca Romana Di Pietro, Ernesto Rossi, Alain Gelibter, Giovanni Schinzari, Giulia d’Amati, Aurelia Rughetti, Paolo Marchetti, Marianna Nuti, Chiara Napoletano – Clin Can Res 2022 doi: 10.1158/1078-0432.CCR-21-2918

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma, sullo studio riguardante i biomarcatori definiscono la fitness immunologica necessaria per la risposta clinica all’immunoterapia dei pazienti oncologici.

TRASMISSIONE AEREA DEL COVID – LA SCOPERTA DI ARPA E UNITO

Lo studio frutto della collaborazione tra i due enti è stato pubblicato sul prestigioso Journal of Hazardous Materials. Il modello sperimentale messo a punto può fornire indicazioni essenziali per la gestione del rischio di infezione negli ambienti chiusi. Attraverso lo sviluppo di un nuovo metodo per il campionamento e l’analisi del SARS-CoV-2 nell’aria è stato dimostrato che il virus può essere trasmesso per via aerea in ambienti chiusi non solo tramite le goccioline respiratorie di più grandi dimensioni. Lo studio per la parte sperimentale ha visto impegnati l’Arpa Piemonte e l’Università di Torino e per la parte teorica e modellistica l’Università di Cassino e la Queensland University of Tecnology.

trasmissione aerea COVID-19
Trasmissione aerea del COVID-19

Il Centro regionale di Biologia molecolare di Arpa Piemonte, in collaborazione con il Laboratorio di Virologia Molecolare e Ricerca Antivirale diretto dal professor David Lembo del Polo Universitario San Luigi Gonzaga di Orbassano dell’Università di Torino, ha sviluppato, sperimentato e validato un metodo per il campionamento e l’analisi del SARS-CoV-2 nell’aria. E, grazie a questo metodo, l’Arpa ha fornito dimostrazione diretta del collegamento tra emissione di una carica virale nota di un soggetto infetto e le relative concentrazioni di SARS-CoV-2 nell’aria in condizioni controllate, dimostrazione non ancora presente in letteratura scientifica.

Gli esperimenti condotti, oltre a stabilire che il virus SARS-CoV-2 si trasmette tramite aerosol ben oltre le distanze a lungo ritenute “di sicurezza” (1-1.5 m), hanno confermato anche l’influenza esercitata dalla tipologia di attività respiratoria rispetto all’emissione di aerosol virale e alla conseguente diffusione nell’ambiente: come già anticipato da studi precedenti, le emissioni durante la fonazione (la produzione di suoni o rumori per mezzo degli organi vocali) risultano essere di un ordine di grandezza superiori rispetto alla semplice attività di respirazione.

E, proprio in questi giorni, viene pubblicato dal prestigioso Journal of Hazardous Materials, editore Elsevier, lo studio dal titolo Link Between SARS-CoV-2 Emissions and Airborne Concentrations: Closing the Gap in Understanding, frutto della collaborazione tra l’Arpa Piemonte e l’Università di Torino da una parte e l’Università di Cassino e del Lazio Meridionale e la Queensland University of Technology di Brisbane, Australia, dall’altra, rappresentate dal Prof. Giorgio Buonanno e dalla Prof.ssa Lidia Morawska, ricercatori leader nella scienza dell’aerosol e nella gestione dei rischi di infezione.

I risultati sperimentali forniti da Arpa Piemonte hanno, inoltre, validato un nuovo approccio teorico predittivo finalizzato a calcolare modellisticamente la concentrazione del virus in un ambiente indoor partendo dalle emissioni delle persone infette e dalle caratteristiche di ventilazione dell’ambiente. Sulla base di tale strumento modellistico è possibile costruire politiche coerenti nella gestione degli ambienti interni e nella determinazione di misure di controllo per ridurre il rischio di infezione (ad esempio calcolando la massima occupazione degli ambienti indoor e la durata massima dell’occupazione).

Questa scoperta con la prestigiosa pubblicazione su una autorevole rivista scientifica internazionale, per noi è una grande soddisfazione in quanto certifica che gli investimenti fatti per la realizzazione del dipartimento di Virologia ambientale in Regione Piemonte sta portando importanti risultati scientifici – commenta l’assessore regionale alla Ricerca applicata Covid, Matteo Marnati – La scoperta di questa nuova metodologia permetterà di studiare e ridurre lo sviluppo del virus negli gli ambienti chiusi. Questo risultato conferma ancora una volta lo sforzo che il “sistema Piemonte” mette in atto per conoscere la pandemia e fornire risposte efficaci. La ricerca e la conoscenza sono l’unica arma che abbiamo per combattere il Covid 19 e per poter formulare strategie sanitarie, basate su analisi dei dati e modelli matematici sicuri”.

Questo studio colma finalmente una lacuna di conoscenza circa la trasmissione di SARS-CoV-2 con una solida evidenza sperimentale che risolve un tema controverso – sottolinea Il Direttore del Laboratorio di Virologia Molecolare dell’Università di Torino, Prof. David Lembo – Possiamo ora affermare che il virus può essere trasmesso per via aerea in ambienti chiusi e non solo attraverso le droplets. Un successo della ricerca italiana che permetterà di applicare i metodi sviluppati anche allo studio degli altri virus respiratori noti e a quelli che si potrebbero presentare in futuro“.

La migliore ricerca scaturisce dall’incontro di competenze differenti, complementari e sinergiche – precisa il direttore generale di Arpa Piemonte, Angelo Robotto – Arpa Piemonte è parte di un prestigioso pool internazionale di scienziati che fa del metodo scientifico il proprio driver nella gestione del rischio di infezione da patogeni a trasmissione aerea negli spazi chiusi. Non c’è dubbio che un adeguamento tecnologico radicale deve essere introdotto per mettere in sicurezza gli ambienti indoor attraverso la ventilazione ed il trattamento dell’aria. L’ambiente e le matrici ambientali sono fondamentali come sentinelle per le ricadute sanitarie”.

Lo ripetiamo da tempo e ora ne abbiamo anche la dimostrazione. Il virus si trasmette per via aerea negli ambienti chiusi – conclude il Prof. Giorgio Buonanno dell’Università di Cassino e del Lazio Meridionale – E qui mascherine chirurgiche, distanziamento e vaccini non sono sufficienti ad evitare il diffondersi dell’infezione, come la variante Omicron ha ulteriormente dimostrato. Ma ci sono valide contromisure, di tipo tecnico-ingegneristico: ventilazione, riduzione dell’emissione, gestione dei tempi di esposizione e affollamento possono mitigare il rischio di infezione. Siamo in grado di mettere in sicurezza l’aria, a prescindere dalle varianti, come già è stato fatto con l’acqua”.

 

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Testo e immagine dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino, sulle nuove scoperte riguardo la trasmissione aerea del COVID-19.

ALLA BASE DEL COVID-19 GRAVE UN DIFETTO DELLE CELLULE STAMINALI 

Pubblicato su «Diabetes» lo studio effettuato dal Dipartimento di Medicina dell’Università di Padova e coordinato dal prof. Gian Paolo Fadini che dimostra un difetto di cellule staminali circolanti nei pazienti ricoverati per COVID-19 che hanno sviluppato un decorso sfavorevole della malattia. L’iperglicemia durante COVID-19 rappresenta una delle cause di riduzione delle cellule staminali circolanti. 

Gian Paolo Fadini COVID-19 grave cellule staminali
Gian Paolo Fadini, coordinatore dello studio pubblicato su Diabetes, che indaga la relazione tra cellule staminali e COVID-19 grave

Fin dall’inizio della pandemia, è emersa una stretta relazione tra diabete mellito e forme severe di COVID-19. Nel 2020 uno studio coordinato dal prof. Gian Paolo Fadini del Dipartimento di Medicina dell’Università di Padova aveva dimostrato che i pazienti affetti da diabete presentavano una probabilità raddoppiata di trasferimento in terapia intensiva o decesso. Come in altre ricerche simili in tutto il mondo, era stato osservato un rischio elevato di andamento sfavorevole anche per i pazienti ricoverati per COVID-19 con elevati valori di glicemia in assenza di diabete.

A far luce su questo tema, un nuovo studio, pubblicato su «Diabetes», la prestigiosa rivista ufficiale della Società Americana di Diabetologia e condotto dai docenti del Dipartimento di Medicina dell’Università, coordinati da Gian Paolo Fadini, Professore Associato di Endocrinologia e Principal Investigator dell’Istituto Veneto di Medicina Molecolare.

Lo studio dimostra che i pazienti ricoverati per COVID-19 presentano un livello molto basso di cellule staminali nel sangue rispetto a soggetti senza infezione da SARS-CoV-2. Inoltre, tra i pazienti con COVID-19 coloro che presentavano livelli più bassi di cellule staminali avevano una probabilità aumentata più di 3 volte di ricovero in terapia intensiva o morte.

Un’altra novità principale dello studio consiste nel dimostrare una strettissima associazione tra iperglicemia al momento del ricovero, difetto di cellule staminali, ed andamento sfavorevole di COVID-19.

«I nostri precedenti studi sui pazienti diabetici – spiega il prof. Gian Paolo Fadini – ci hanno insegnato che le alte concentrazioni di glucosio riducono il livello di cellule staminali ematopoietiche circolanti. Il rilascio di queste cellule nel sangue – continua il professore – è necessario all’organismo per mantenere un’adeguata capacità dei tessuti di ripararsi e di rispondere agli insulti».

«Ora abbiamo osservato che anche nei pazienti senza una storia di diabete, lo stato iper-infiammatorio durante COVID-19 può causare iperglicemia e che questo rialzo glicemico riduce le cellule staminali – sottolinea Benedetta Bonora, ricercatrice del Dipartimento di Medicina dell’Università e prima autrice dello studio –. A sua volta, il difetto di cellule staminali conduce ad un peggioramento del decorso clinico della malattia e spiega perché i pazienti con iperglicemia al momento dell’ingresso in ospedale rischiano di soccombere al COVID-19».

Il lavoro emerge da una collaborazione congiunta con l’Unità di Malattie Infettive, diretta dalla dottoressa Annamaria Cattelan, dove i pazienti sono stati ricoverati, e della Medicina di Laboratorio, diretta dalla prof.ssa Daniela Basso. Come spiega proprio la prof.ssa Basso:

«Raramente osserviamo livelli così bassi di cellule staminali circolanti in individui senza malattie del sangue – conferma Daniela Basso –. Si tratta molto probabilmente di una delle conseguenze dell’abnorme immuno-attivazione indotta dal virus, ma non possiamo escludere che il virus infetti le cellule staminali e le uccida».

«Nelle nostre precedenti ricerche – puntualizza Gian Paolo Fadini – abbiamo scoperto che uno dei meccanismi con cui l’iperglicemia riduce le cellule staminali passa attraverso una molecola chiamata Oncostatina M che stimola la produzione di cellule infiammatorie e trattiene le cellule staminali nel midollo, creando un circolo vizioso. Ora intendiamo verificare se Oncostatin M può essere un target terapeutico per la cura dei pazienti con COVID-19».

«L’iperglicemia all’ingresso in ospedale era presente in quasi la metà dei pazienti ricoverati per COVID-19 – conclude il prof. Angelo Avogaro, direttore della Diabetologia dell’Azienda Ospedale-Università di Padova, facendo comprendere l’enorme rilevanza di questo problema nell’attuale fase pandemica –. Ampliando le conoscenze sulle interazioni tra iperglicemia, cellule staminali e COVID-19 questo studio aiuta a identificare un nuovo potenziale bersaglio terapeutico per spegnere l’eccessiva risposta immuno-infiammatoria che conduce i pazienti con infezione da SARS-CoV-2 a sviluppare complicanze gravi ed a soccombere al virus».

Link alla ricerca:

https://diabetesjournals.org/diabetes/article/doi/10.2337/db21-0965/140945/Hyperglycemia-Reduced-Hematopoietic-Stem-Cells-and

Titolo: “Hyperglycemia, reduced hematopoietic stem cells, and outcome of COVID-19” – «Diabetes» – 2022

Autori: Benedetta Maria Bonora, Paola Fogar, Jenny Zuin, Daniele Falaguasta, Roberta Cappellari, Annamaria Cattelan, Serena Marinello, Anna Ferrari, Angelo Avogaro, Mario Plebani, Daniela Basso, Gian Paolo Fadini.

Gian Paolo Fadini

Gian Paolo Fadini è Professore Associato di Endocrinologia presso l’Università degli Studi di Padova e Dirigente Medico presso la Divisione di Malattie del Metabolismo dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Padova. È anche Principal investigator del Laboratorio di Diabetologia Sperimentale presso l’Istituto Veneto di Medicina Molecolare (http://www.vimm.it/scientific-board/gian-paolo-fadini/), una struttura scientifica traslazionale e di base.

L’attività didattica del Prof. Fadini è rivolta agli studenti del Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia e del Corso di Specialità in Endocrinologia e Metabolismo, mentre le attività di ricerca sono dedicate allo studio delle complicanze croniche del diabete, delle cellule staminali nel diabete, dell’angiogenesi, dell’aterosclerosi, della calcificazione e rigenerazione vascolare, della guarigione delle ulcere, delle sindrome metabolica e insulino-resistenza, dello stress ossidativo, delle complicanze diabetiche acute, e dei meccanismi genetiche di longevità delle malattie metaboliche.

Con una serie di studi clinici traslazionali sulle cellule progenitrici endoteliali, l’attività di ricerca del Prof. Fadini ha contribuito alla comprensione di come il diabete induca danno vascolare e comprometta la riparazione endoteliale. Come evoluzione di questo campo di studi, il Prof. Fadini è passato a considerare il midollo osseo, che regola le cellule staminali vascolari e la rigenerazione, come bersaglio delle complicanze diabetiche. In ambito clinico, il Prof. Fadini ha condotto studi utilizzando dati clinici accumulati routinari sugli esiti cardiovascolari e sull’efficacia nel mondo reale dei farmaci ipoglicemizzanti, inclusa la serie di studi osservazionali nazionali DARWIN.

Al Professor Gian Paolo Fadini è stato assegnato il premio Minkowski, il riconoscimento europeo più prestigioso nel campo delle ricerche sul diabete, per le sue ricerche sul ruolo delle alterazioni delle cellule staminali nelle complicanze vascolari del diabete.

Il Prof. Fadini è Associate Editor per Atherosclerosis, Journal of Endocrinological Investigation e Nutrition Metabolism & Cardiovascular Disease, è membro del board di European Heart Journal, Diabetes Obesity & Metabolism e Cardiovascular Diabetology edex membro del consiglio di Diabetes e Clinical Science e revisore (tra gli altri) per: Lancet Diabetes & Endocrinology, Circulation, Circulation Research, J Am Coll Cardiol, ATVB, Stem Cells, Stroke, Diabetologia, Diabetes Care. Ha pubblicato più di 300 articoli su riviste peer-review, con un H-index di 54.

 

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova, sullo studio pubblicato su Diabetes, che indaga la relazione tra cellule staminali e COVID-19 grave.

COVID-19, DISTANZIAMENTO E DROPLET TRANSMISSION CON E SENZA MASCHERINA 

Pubblicato sul «Journal of the Royal Society Interface» lo studio del team internazionale di ricerca dell’Università di Padova, Udine, Vienna e Chalmers: si può quantificare il rischio di contagio in funzione della distanza interpersonale, temperatura, umidità e tipo di evento respiratorio considerato. Quando si parla senza mascherina le goccioline infette emesse possono raggiungere oltre un metro, fino a 3 metri per un colpo di tosse mentre starnutendo raggiungono i 7 metri, con le mascherine chirurgiche e FFP2 il rischio di contagio diventa praticamente trascurabile sia che si parli, che si tossisca o starnutisca.

COVID-19 distanziamento mascherina
Dinamica di gocce e aerosol, vettori della trasmissione virale

Il gruppo di ricerca del professor Francesco Picano del Dipartimento di Ingegneria Industriale dell’Università di Padova – costituito dai dottori Federico Dalla Barba e Jietuo Wang, in collaborazione con il professor Alfredo Soldati, il dottor Alessio Roccon della Technische Universität Wien e Università di Udine, e il prof. Gaetano Sardina della svedese Chalmers University of Technology) – sul «Journal of the Royal Society Interface» propone un modello di quantificazione del rischio di contagio da COVID-19 in funzione della distanza interpersonale, condizioni ambientali di temperatura e umidità e tipo di evento respiratorio considerato (parlare, tossire o starnutire) con o senza l’utilizzo di mascherine.

Le strategie per combattere il COVID – 19, oltre al fondamentale utilizzo del vaccino, si basano su lockdown più o meno totali, distanziamento interpersonale (1-2 metri, three/six-feet rule), sanificazione di superfici e mani o areazione degli ambienti. La puntuale revisione di queste modalità di profilassi è fondamentale per contenere la diffusione di questa e altre future pandemie simili. È bene ricordare che la scienza ha fatto sempre tesoro delle esperienze passate: negli anni successivi alla pandemia di influenza spagnola del 1918 la comunità scientifica studiò le strategie per evitare la propagazione dei virus tanto che nel 1934 in una ricerca dell’americano William Firth Wells furono definite le basi per lo studio della trasmissione aerea dei virus e del distanziamento sociale.

I virus, come il SARS-COV-2, passano da un individuo infetto a uno sano tramite la trasmissione di goccioline salivari emesse parlando, tossendo o starnutendo. Le goccioline in sospensione si possono depositare sulle superfici che diventano quindi il terreno di contagio una volta toccate dall’individuo sano. In questo caso si può contrastare la catena del contagio sanificando superfici e mani.

Più articolata è la questione della trasmissione aerea: le regole fin qui usate per evitare la propagazione sono state il distanziamento interpersonale, la capienza ridotta degli ambienti e le mascherine.  Wells, come si è detto, distinse la trasmissione aerea in droplet o airborne/aerosol.

L’emissione di goccioline salivari avviene tramite la formazione di uno spray di goccioline spinto dall’aria espirata: le gocce nel loro moto evaporano, si depositano o restano sospese. Quelle più grandi e pesanti cadono prima di evaporare mostrando un moto balistico (droplet), mentre le più piccole evaporano prima di cadere e tendono ad essere trasportate dal fluido (airborne).

Wells, utilizzando le conoscenze dell’epoca sulla dinamica delle goccioline e sull’evaporazione di spray, propose la cosiddetta evaporation-falling curve in cui quantificò i tempi necessari per l’evaporazione completa o la caduta a terra delle goccioline respiratorie in funzione della loro dimensione iniziale. Dal punto di vista pratico: la distanza di 1,8 metri (six-feet) è quella in cui le goccioline più grandi arrivano prima di cadere su terreno (droplet transmission), mentre quelle più piccole, una volta evaporate, diventano minuscoli residui di materiale non-volatile capaci di rimanere sospesi nell’aria ed essere infettivi a lungo in ambienti chiusi non ventilati (aerosol/droplet-nuclei).

Nel tempo la comunità scientifica ha approfondito nuovamente la caratterizzazione degli spray respiratori, le distanze raggiunte dalle goccioline salivari e l’efficacia del distanziamento. È assodato che: le goccioline mostrano tempi di evaporazione molto più lunghi rispetto a quanto atteso dal modello del 1934 e che parte delle goccioline più grandi (airborne-droplet) sono trasportate dal getto d’aria emesso durante gli atti respiratori, raggiungendo distanze maggiori di quanto si pensasse.

La ricerca

Dallo studio pubblicato sul «Journal of the Royal Society Interface» emerge che senza mascherina le goccioline infette emesse quando si parla posso raggiungere la distanza di poco più d’un metro mentre starnutendo arrivano fino 7 metri in condizioni di elevata umidità. Tali distanze, stimate dal modello, mostrano un pieno accordo con le più recenti evidenze sperimentali. Dall’applicazione del modello per la stima del rischio di contagio si capisce che non esiste una distanza di sicurezza “universale” in quanto essa dipende dalle condizioni ambientali, dalla carica virale e dal tipo di evento respiratorio. Ad esempio, considerando un colpo di tosse (con media carica virale) si può avere un alto rischio di contagio entro i 2 metri in condizioni di umidità relativa media mentre diventano 3 con alta umidità relativa, sempre senza mascherina.

«La pandemia di COVID-19 ha evidenziato l’importanza di modellare accuratamente la trasmissione virale operata da goccioline salivari emesse da individui infetti durante eventi respiratori come parlare, tossire e starnutire. Le regole del distanziamento interpersonale usualmente utilizzate si basano principalmente sullo studio proposto da Wells nel 1934. Nel nostro lavoro – dice Francesco Picano – abbiamo revisionato tale teoria utilizzando le più recenti conoscenze sugli spray respiratori arrivando a definire un nuovo modello per quantificare il rischio di contagio respiratorio diretto. L’applicazione del modello fornisce una valutazione sistematica degli effetti del distanziamento e delle mascherine sul rischio d’infezione. I risultati indicano che il rischio è fortemente influenzato dalle condizioni ambientali come l’umidità, dalla carica virale e dal tipo di attività respiratoria, suggerendo l’inesistenza di una distanza di sicurezza “universale”. Di contro – sottolinea Picano – indossare le mascherine fornisce un’eccellente protezione, limitando efficacemente la trasmissione di agenti patogeni anche a brevi distanze interpersonali e in ogni condizione ambientale».

Francesco Picano, uno degli autori dello studio relativo a COVID-19, distanziamento e droplet transmission con e senza mascherina

La ricerca, utilizzando i più recenti dati sperimentali sulla riduzione dell’emissione di goccioline ad opera delle mascherine, ha testato il modello per quantificare come i dispositivi di protezione individuale abbattano il rischio di contagio: l’utilizzo della mascherina, chirurgica e ancor di più se FFP2, si dimostra essere un eccellente strumento di protezione abbattendo il rischio di contagio che diventa trascurabile già a brevi distanze (circa 1m), indipendentemente dalle condizioni ambientali o dall’evento respiratorio considerato.

«Sappiamo che il Virus richiede un vettore per essere trasmesso da una persona ad un’altra. Sappiamo anche che il vettore sono le goccioline di saliva emesse mentre respiriamo, parliamo starnutiamo, cantiamo. Le indicazioni mediche che stiamo seguendo sono basate su studi di fluidodinamica del 1940: Noi stiamo chiudendo le scuole, limitando le capienze dei locali, limitando le distanze tra le persone sulla base di studi del 1940. È importante – conclude Alfredo Soldati ordinario di fluidodinamica dell’Università di Udine e direttore dell’Institute of Fluid Mechanics and Heat Transfer della Technische Universität di Vienna – che ingegneri e fisici si cimentino nello studio di questi fenomeni insieme a biologi e virologi per fornire indicazioni precise che consentano di rilassare le norme quando si può e di rinforzarle quando si deve. Dall’inizio della pandemia la comunità internazionale si è messa al lavoro e ha prodotto in soli due anni un bagaglio di conoscenze basate su sofisticati esperimenti e accurate simulazioni sui moderni supercomputer. La gestione di questa pandemia richiede un continuo e razionale impegno da parte delle amministrazioni pubbliche, della comunità medica e di quella scientifica al fine di identificare misure sostenibili e accettabili dalla società. Il mio auspicio è che la comunità sanitaria che identifica le misure di sicurezza accolga volentieri i nostri suggerimenti e il nostro aiuto».

COVID-19, distanziamento e droplet transmission con e senza mascherina

Link alla pubblicazione: https://doi.org/10.1098/rsif.2021.0819

Titolo: “Modelling the direct virus exposure risk associated with respiratory events” – «Journal of the Royal Society Interface» – 2022; Autori: J. Wang, F. Dalla Barba, A. Roccon, G. Sardina, A. Soldati & F. Picano

 

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Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova sullo studio relativo a COVID-19, distanziamento e droplet transmission con e senza mascherina.

Una rete di pulsar per “ascoltare” il brusio cosmico di fondo delle onde gravitazionali

Pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society uno studio internazionale che ha visto coinvolti i ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca e di INAF-Cagliari

pulsar delle Vele stelle a neutroni onde gravitazionali bassissima frequenza
Una rete di pulsar per “ascoltare” il brusio cosmico di fondo delle onde gravitazionali. Nella foto, la Pulsar delle Vele. Foto NASA/CXC/PSU/G.Pavlov et al., in pubblico dominio
Milano, 12 gennaio 2021 – I ricercatori del progetto International Pulsar Timing Array (IPTA), avvalendosi dei lavori e delle competenze di diverse collaborazioni di astrofisici di tutto il mondo – inclusi membri dell’Università di Milano-Bicocca e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) – hanno recentemente completato l’analisi del più completo archivio oggi disponibile di dati sui tempi di arrivo degli impulsi di 65 pulsar, ciò che resta di stelle di grande massa esplose come supernove. Questa accurata indagine sperimentale rafforza le indicazioni teoriche che suggerirebbero la presenza di un vero e proprio “brusio” cosmico, prodotto da onde gravitazionali di frequenze ultra basse (da miliardesimi a milionesimi di Hertz) emesse da una moltitudine di coppie di buchi neri super-massicci.

Le pulsar studiate dal team sono dette “al millisecondo” perché ruotano attorno al proprio asse centinaia di volte al secondo, emettendo stretti fasci di onde radio che ci appaiono come impulsi a causa del loro moto di rotazione. I tempi di arrivo di questi impulsi sono stati poi combinati in un unico insieme di dati, unendo le osservazioni indipendenti di tre collaborazioni internazionali: l’European Pulsar Timing Array (EPTA, a cui appartengono i ricercatori dell’INAF e dell’Università di Milano-Bicocca coinvolti nel progetto), il North American Nanohertz Observatory for Gravitational Waves (NANOGrav), e il Parkes Pulsar Timing Array in Australia (PPTA). Queste tre collaborazioni sono anche le fondatrici dell’IPTA.

L’indagine del team di IPTA su questi dati combinati ha messo in luce la presenza di un segnale a bassissima frequenza. «È un segnale molto emozionante! Anche se non abbiamo ancora prove definitive, potrebbe essere il primo passo verso la rivelazione del fondo cosmico di onde gravitazionali», dice Siyuan Chen, membro delle collaborazioni EPTA e NANOGrav, e il coordinatore per IPTA della pubblicazione dell’indagine in un articolo sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society (“The International Pulsar Timing Array second data release: Search for an isotropic Gravitational Wave Background” – DOI: 10.1093/mnras/stab3418).

Boris Goncharov del PPTA è comunque ancora cauto sulle possibili interpretazioni di tali segnali: «Stiamo anche esaminando a cos’altro potrebbe essere associato questo segnale. Per esempio, potrebbe magari derivare da un rumore presente nei dati delle singole pulsar che potrebbe essere stato modellato in modo improprio nelle nostre analisi».

Spiega Delphine Perrodin, dell’INAF di Cagliari, coautrice del lavoro: «Questo risultato conferma e rafforza notevolemente il graduale emergere di segnali simili che sono stati trovati negli ultimi anni nei singoli insiemi di dati, indipendentemente dalle varie collaborazioni partecipanti a IPTA. In particolare, nel quadro dell’esperimento EPTA, siamo abituati da oltre due decenni a combinare i dati provenienti da cinque diversi radiotelescopi europei, fra cui il Sardinia Radio Telescope (SRT, localizzato in Sardegna), e spesso ad osservare simultaneamente la stessa pulsar. Questa esperienza è stata molto utile nella creazione dell’attuale versione dei dati. Inoltre, all’interno di EPTA è stata sviluppata buona parte della metodologia utilizzata per capire le caratteristiche del possibile segnale nel corso dei molti anni di monitoraggio».

Sulla possibile origine del segnale lavora un altro coautore della pubblicazione, Alberto Sesana, che studia queste tematiche col suo team presso l’Università di Milano Bicocca: «Le caratteristiche di questo segnale comune tra le pulsar sono in ottimo accordo con quelle attese per il fondo cosmico di onde gravitazionali, frutto della sovrapposizione di molteplici segnali di onde gravitazionali emessi da una popolazione di buchi neri binari super-massicci. Si tratta di coppie di buchi neri di grande massa che orbitano spiraleggiando l’uno intorno all’altro, con ciò liberando grandi quantità di energia sotto forma di onde gravitazionali».

La sovrapposizione di tutte queste onde, di frequenze leggermente diverse fra loro e provenienti da tutte le direzioni del cosmo, può essere immaginato come un brusio indistinto (in quel caso prodotto da onde sonore) che potremmo ascoltare all’interno di una sala affollata.

Il prossimo passo per il team di IPTA sarà la misura della cosiddetta “correlazione spaziale” tra le pulsar. Spiega Andrea Possenti, dell’INAF di Cagliari, e coautore del lavoro: «La correlazione del segnale tra le coppie di pulsar è la chiave per chiarire la fonte del segnale. Perché si tratti del fondo di onde gravitazionali, ogni coppia di pulsar deve comportarsi in un modo molto specifico, a seconda della loro separazione angolare nel cielo. Al momento non si può concludere nulla al proposito: abbiamo infatti bisogno di un segnale più forte per misurare questa correlazione».

Gli fa eco Bhal Chandra Joshi, membro dell’InPTA (il consorzio sperimentale con base in India, da poco entrato a sua volta nel IPTA): «Il primo indizio è un segnale come quello ora veduto nei dati dell’IPTA. Poi, con più dati, speriamo che il segnale inizierà a mostrare le attese correlazioni spaziali: a quel punto sapremo che si tratta davvero del fondo cosmico di onde gravitazionali».

Il lavoro già ferve all’interno di IPTA per aggiungere nuove osservazioni, sempre più precise, alla combinazione di dati esistenti.  Conclude Delphine Perrodin: «Questo è un vero lavoro di squadra internazionale, all’interno del quale il contributo italiano, fra INAF e Università di Milano Bicocca, diviene sempre più importante, con le osservazioni presso SRT, la combinazione con i dati degli altri radio telescopi, la loro analisi ed interpretazione astrofisica. Non si può che essere ottimisti circa le capacità di arrivare presto ad una scoperta che sarebbe epocale».

Testo dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca sulla rete di pulsar per “ascoltare” il brusio cosmico di fondo delle onde gravitazionali.
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https://www.scientificult.it/2021/10/27/european-pulsar-timing-array-osservazione-onde-gravitazionali-a-bassissima-frequenza/